Gli uomini hanno impiegato mezzo milione di anni per estrarre dai recessi
più profondi dell’inconscio quell’esaltazione che produce la maturità.
Non bisogna essere troppo duri con noi stessi. Come cultura, specie, per molto tempo ce la siamo cavata. Nessuno ci ha insegnato niente tranne forse il paesaggio, alcuni predatori.
Gestivamo il divide tra noi e la natura, quello certamente lo abbiamo imparato davvero da soli. E la nostra accezione di correre era la prima, quella essenziale.
Poi
Gli eventi speciali davvero, organici, accadono una sola volta, non ne abbiamo esperienza; qualcosa dell’adolescenza e vanno affrontati con coraggio e prudenza, insieme. Gli accadimenti si impilano, i punti critici si diffondono e alcuni si allargano, stressor spingono, occasioni diventano trappole che scattano nell’ambiente perché erano potenziali già nel metabolismo e nella struttura del cervello. Sparse a tratti e suggestioni, approssimative e fondamentali come parte di Età dell’Oro di culture al collasso che vogliono ancora un po’ di tempo, di spazio, di attenzione, sono gli accenni di un uomo, pensato come scomparso, e di un mondo irripetibile. Sono nei cultori dell’Ironman, negli Eden, l’uomo pauroso ma alto e sano di Harari, quello che succede prima dei vasi di Pandora, i mille disagi della civilizzazione, le nevrosi, il collasso e le sue storie, le epidemie ballardiane e le epidemie tout court, ogni thriller dove c’è violenza contro un simile e contro il futuro. Questi picchi, colline, schegge sono terribilmente a caso a meno di non conoscerne l’origine e l’inventore, la mappa e il territorio psichico e metabolico. Ecco delle nuove lenti, sono il paradigma del Pleistocene di Shepard e adesso, rinvigorita, la vista, almeno quella immaginifica, migliora. È la vista di chi vive all’aperto e vede diversi livelli di ombra e molti tipi di verde.
-Le dust bowl, già viste, ricordate, così come le morti, in numeri che il cervello sapiens non immagina e che possono definirsi in generazioni che spariscono, del tutto e in breve tempo. La scala però è diversa, la differenza tra un uomo mostruosamente alto e un gigante. La frequenza delle prime sulle fasce dei cereali forse lungo tutto l’asse euroasiatico e su quella del riso devono essere devastati, nel globale l’emersione di un simbolo del collasso unico nelle onde di polvere sterile, ma possiamo vederne una in un angolo di mondo che doveva essere salvato anche nelle command & control room da Dottor Stranamore. Un Holodomor ma su tutto il pianeta, megadeath per fame, l’incubo dello storico, del demografo, lo scrittore. Una carestia e le parole hanno un senso sotterraneo e non occulto nel concetto: non ci sono carestie senza agency umana. Dall’altro spettro della magnitudine dell’inumano per grandezza c’è il colosso di sabbia di Mad Max: Fury road. Siamo in un’altra storia, un film, diversi rami, stesso frutto. 2067, Interstellar.-
–Guarda la fattoria nel Midwest, sulla terra fertile dove agricoltori tedeschi e poi la scienza agraria hanno per secoli trasformato prateria in campo e campi in industria. Immagine di successo come poche quella fattoria, scena, meme, successo di specie e di sistema, appena messo in ombra dal più spettacolare razzo in velocità di fuga. Un’ingiustizia dell’immaginario perché quella resa per ettaro è lo straordinario che ha permesso alcuni miracoli, alcuni mostri, economici, demografici, ecologici. Denial immaginifico: le forze che spingono i razzi sono le stesse che hanno permesso il take off del numero di umani. Serve allontanarsi, un po’ di distacco. Tutti i segni di quello che succederà sono lì, un foreshadowing per immagini. Gli umani tornano ad essere fauna, tornano a ricordarsi come tali. Diffusi su tutto il pianeta, occupano le nicchie, rappresentano, definiscono la biomassa, tutto questo è già successo: sono la specie dominante dopo una estinzione di massa. L’idea del ciclo è solo per aiutare quel cervello. Il cambio biotico è in corso, a tratti, spinte, fasi. Una nuova estinzione di massa arriva o si sta concludendo, per definirlo servirebbe altra prospettiva cosmica. In ogni caso, i personaggi sono tutti sopravvissuti, devono aver visto tratti di The Road, colonne di profughi in milioni, come verso e dal Pakistan ma ovunque, e sono vivi perché il collasso è a punti e strisce su luoghi e tempo, sono i fortunati ma la fortuna non dura. Non hanno superato un collasso per quanto enorme, planetario, ma sono spettatori di un evento estintivo di massa. La Piaga non sta solo uccidendo la possibilità di coltivare qualcosa, sta cambiando un intero ciclo biofisico e noi “non respiriamo azoto”. Qualcosa che è già successo. L’aria cambierà, un’altra volta, ancora qualche tempo, un’altra generazione e l’Antropocene, non quello di tracce e rifiuti ma dell’unica Rivoluzione, verrà concluso che quella in corso è un’altra terraformazione, concetto che gli uomini hanno riscoperto dato che la natura procedeva così da sempre. In ogni caso Cooper non vede, pensa che il peggio sia finito nel suo rifugio di calorie e figli. Convinto di dover gestire un momento pastorale in una post-apo, i rimpianti, la manipolazione narrativa per sopravvivere e dipingere quadri più tranquilli, i futuri interrotti di tutti in un mondo senza crescita economica, dove forse le Curie e gli Einstein non allevano bufali ma sono i figli mai nati di chi non è riuscito a uscire dalle città, una brutale fine della globalizzazione peggiore dell’ultima di alcuni secoli fa. Una nuova era oscura dove invecchiare ma non è così. Si può interrompere. C’è una gabbia della complessità antica, la prima, ancestrale di cui solo adesso potrebbe vedere l’ampiezza nella polvere morta che entra nelle stanze. Per romperla lo scrittore deve aprire uno squarcio nel genere e nello spazio. Non c’è un wormhole, mai visto, osservato. Adesso, realtà che è qualcosa da cui fuggire o negare senza un paradigma e questo arriva. È la fine di una lunga apocalisse, una cominciata in un momento fluido, migliaia di anni, e lungo in alcuni luoghi definiti e conosciuti, Mesopotamia, Valle del Nilo, dal Fiume Giallo, ma più probabilmente ovunque, al momento giusto, con gli stressor climatici giusti, dopo mutamenti delle condizioni dei gruppi, tribù, bande di umani. La catastrofe è un prodotto della presenza umana, invenzione ancillare e incidentale e deve essere arrivata presto, dopo qualche stagione e secolo. Non ci sono movimenti di popoli, ritorno e viaggi di eroi senza una qualche catastrofe e queste sono cominciate alle prime degradazioni del terreno, i primi incendi fuori controllo, cicli di fosfati interrotti e deviati. La fame, la morte, i mostri, poi le epidemie e le guerre. L’eroe caccia, inevitabilmente, le skill rilevanti sono quelle che sono ridotte, assopite ma ancora recuperabili, vezzi che sono status ma anche sopravvivenza. Per lo scrittore lo spettro nella wasteland dell’epica ha il cacciatore ancestrale e lo scavenger ai due estremi dove l’ultimo, insieme al serial killer, al soldato, al frequentatore di safari, scimmiotta il primo in una farsa e in una tragedia con diversi livelli di orrore. Il resto dell’apparizione nel letterario e narrativo è non epico. C’è l’Apocalisse, la time bomb innescata dai primi umani che hanno arato la terra, che sta per esplodere, migliaia di anni e generazioni e civiltà, in Interstellar. La Piaga è presagio. Shepard è in quell’evento, tira via il velo degli assiri che mimano la caccia mentre travolgono gli ostacoli all’Impero perché il collasso che colpisce le civiltà agricole dell’Età del Bronzo è autoinflitto e la soluzione è temporanea, volevano superare il neolitico nel suo paradigma con qualcosa di nuovo ed è l’Impero ovvero una macchina composta di schiavi, altra terra e guerra, entropica ancora più dispersiva, violenta e la violenza costa ancora più energie e proteine. Come il canarino che, una volta fuori dalla gabbia, si ritrova in una più grande così l’Impero come invenzione apre una gabbia per entrare in una più grande. È un apparente balzo in avanti, con i carri, con i cavalli, quei popoli non possono tornare indietro. E noi? Non è un problema di essere civiltà, scimmie fortunate e carnivore, ma di gabbia e il suo paradigma.–
C’è una storia della natura e del carattere. La natura dell’umanità è quella in cui ci siamo evoluti. Ci sono meno rivoluzioni di quello che piace raccontarci e confondiamo natura dell’umanità con quello che è il carattere che invece cambia, usi, occasioni, costumi, strumenti. Come carattere la stampa e poi i social sono altri tool di gestione dell’informazione e poi di attenzione e neurotrasmettitori, altri sistemi estrattivi, miglioramenti. Le rivoluzioni in fondo, elaborano altre piramidi, immagini di operai che spingono enormi blocchi di pietra, ben nutriti o sotto una frusta e tutti si muovono su altre schiena e sono quelle dei contadini nella Valle. Estraendo, l’unica radicale rivoluzione è stata quella agricola. Il resto sono diversi strati di schiene, inadatte, inumane, che si piegano e altri uomini e donne e bambini che muoiono, in altri momenti annegati. In altri ancora, di fame.
“Agli uomini la caccia, alle donne economia e politica”, sembra dire Shepard. Ci sono alcuni trigger possibili in questa frase ma eccone un altro: una nave affonda, un aereo è in fiamme. Prima donne e bambini. Se quest’ultima frase adesso sembra una provocazione, inattuale, vuol dire che la narrativa cancellazione del plateau biologico è un altro strato dell’inumano e del sintetico culturale.
I loro passatempi sono spesso scioccanti e brutali, le loro osservanze religiose rumorose e drammatiche. I combattimenti di galli, tori, orsi, cani, uomini, la deboscia
etilica, le droghe, la remissione socialmente sancita delle norme morali, le esibizioni pubbliche e le punizioni civili, la frenesia e l’indulgenza sessuale e religiosa sono tentativi sociali di compensare l’annullamento. (pag. 299)
—Varsavia, hotel del centro, fuori del brutalismo, una lounge standard per le sue stelle, il rosso uguale per dei buoni anni ’90, di fronte uno degli ascensori, in attesa, un uomo ne riconosce un altro che non ha mai visto. Il riconoscimento è sicuro e c’è un attimo di ritrosia, timidezza forse, con più tempo, in uno slancio di maturità riflessiva, se non si fosse sempre di corsa, in un’altra corsa, si scaverebbe di più in questo attimo di disagio accanto ad estranei ed estranei che si materializzano. Le porte specchiate si aprono, altri specchi, fine dell’esitazione, l’uomo parla. “Professor Snyder, ho letto alcuni sui libri”, dice per ridurre il senso della sorpresa, dell’imboscata, qualcosa che deve essere stato inventato nell’interregno tra le Pietre, “Hitler è il prodotto finale della Rivoluzione agricola.” Il grasso nazista, il passo dell’Oca, il freak che odia la tribù e si nasconde nella massa, sono lo stomaco, di denti, l’insicurezza che fonda i sogni neri imperiali e brama la propria distruzione.—
Un uomo quasi nudo immortalato in una foto, scaglia sembra una freccia o una lancia verso l’obiettivo e non c’è alcun buon selvaggio nel paradigma di Shepard. L’arciere in quell’angolo non civilizzato, nella sua nicchia insulare, non è salvo, puro, felice. Vive in un ambiente in un diverso livello di ostilità eppure ostile, giungla verde o di cemento, il deserto di ghiaccio e grasso di foca: non sono le montagne che si decise di attraversare o le valli del Pleistocene. Non quella fauna, non quelle immagini. Quel mondo è rimasto ma non fossile, nonostante manipolazioni e condizionamenti, dentro. Quelle popolazioni diventano le specie protette nell’atavico senso di colpa, dei primi eliminazionismi. Da quelle parti, nelle civiltà neolitiche, le vendette delle schiene rotte e degli uteri devastati, nascono i demoni.
Quando le dinamiche della popolazione umana si sono spezzate con il sovvertimento della caccia e della raccolta, si è liberata la latente diversità genetica precedentemente nascosta o controllata da uno stretto conformismo sociale. Così come si è avuta un’abbondanza di stramberie biologiche quando l’addomesticamento degli animali ha rotto i bilanciati sistemi genetici dei loro progenitori selvatici, mille stramberie ideologiche si sono diffuse da quando l’agricoltura ha distrutto lo stile di vita dei clan di cacciatori.
-Contadini coreani diventano soldati una volta spinti dentro barche e vengono scacciati in mare, fatti schiavi, uccisi, da “ricchi cacciatori-raccoglitori” dice Jared Diamond, un altro che ha un grande debito con Shepard, come tutti quelli che scrivono la parola civiltà, contribuiscono a riprendere o, più spesso, a scacciare l’incantesimo del senso di collasso.-
Shepard vede che le bombe sono a fuso lento, timer in secoli e cicli. Quanto più lungo è il tempo all’esplosione, maggiore sembra sarà l’impatto, una versione di population bomb: il numero dei morti è proporzionale quasi. Come evitare la catastrofe? Non si può. Come far tacere le scimmie impaurite come fossero ancora appese agli alberi? Non vedi che il collasso ecologico e quello psichico, della struttura narrativa, avvengono nello stesso momento, sembra dire Shepard come tutti gli uomini e le donne saggi e capaci. Le città costiere di Shepard, i suoi piani regolatori umani per gli umani, il rewilding colossale, tutte parti di una retroingegneria sociale che in tratti e schegge ritroviamo in tutti i tentativi di immaginare un futuro che non sia di denial, di un’eternità che il pianeta non ha mai avuto o si può più permettere. Shepard chiede un impegno utopico, caratteristica offensiva e inadeguata se si scegli di guardare l’impegno che la civiltà delle finte rivoluzioni e vere estrazioni piramidali richiede. Le basi si erodono, non era pietra ma fango e le acque tendono a negare certe forme.
È l’adolescenza, dude, qualcosa da pace climatica,. Qualcuno ha detto “tecnologica”. Il tema del libro è il coming-of-age. Il centro non può reggere soprattutto se gestito da bambini adulti incontinenti, in una stanza dove l’atmosfera è strutturata in panico e ansia. Bisogna tornare, nonostante tutto, ad essere maturi.
