
C’è una generazione di quarantenni e cinquantenni per cui Cormac McCarthy ha significato qualcosa, e c’è una generazione molto meno nostalgica per cui i suoi libri non significheranno più nulla. Il passeggero parla a entrambe le generazioni, e dice “io non sono io”. Per spiegarlo devo tornare a una cena di scrittori, editoriali e librai di qualche anno fa. Era un locale cheap con cibo sovrapprezzo, arredato in modo non memorabile, affollato. Nei discorsi alcolici di fine serata si parlava di La strada e del fantomatico romanzo che, a distanza di troppi anni, sarebbe seguito. Ricordo come se fosse ora che uno scrittore, uno di quelli del momento, tagliò corto portando la conversazione a un vicolo cieco, come un 41bis: “non lo scriverà mai, non può scriverlo”. Il romanzo che non poteva esistere è uscito nell’ottobre del 2022, seguito due mesi dopo dal suo eterozigote. Ma il punto è un altro. Lo scrittore del momento aveva tratto conseguenze precipitose da un assunto corretto: come si può scrivere La strada e poi scrivere un romanzo che lo sorpassi, che vada oltre? Ammesso e non concesso che un autore debba per forza superare sé stesso, ammesso e non concesso che ‘superare’ abbia un qualche senso in letteratura, vorrei provare a capire come Il passeggero porti l’ormai novantenne McCarthy nella quinta dimensione della scrittura.
“Qui lavoriamo senza rete. Se non c’è spazio non si può estrapolare. Dove vai a parare? Butti fuori roba ma quando la recuperi non sai dove sia stata. Bene. Non è il caso di prendersela. Devi solo darci dentro e fare qualche calcolo perdio. È qui che entri in gioco tu. La roba che hai qui sarà anche solo virtuale o forse no ma le regole dovrà pur contenerle, se no mi dici dove cazzo stanno le regole? E naturalmente è proprio questo che cerchiamo, Alice. Le sempre-siano-benedette regole. Metti tutto in un barattolo e poi etichetti il barattolo e da lì ti muovi à la Gödel, Church e compagnia e nel frattempo la roba reale che con ogni probabilità è un qualche substrato del substrato si leva dal cazzo nel tempo a venire a velocità deformabili a condizione che quanto è privo di massa non presenti variazioni di volume né niente e dunque niente forma e quello che non si può appiattire non si può gonfiare e viceversa nella migliore tradizione commutativa e a questo punto siamo per così dire bloccati. Giusto?” (Il passeggero, traduzione di Maurizia Balmelli, Einaudi 2023, pp. 9-10, corsivo nel testo)
Partiamo da un fatto: La strada è un romanzo molto frainteso perché la dimensione distopico-apocalittica ha oscurato i due aspetti più importanti del libro, cioè l’epica del tempo come macchina entropica e la disperata irriducibilità del rapporto padri-figli. Due temi perennemente presenti in McCarthy e ovviamente centrali anche in Il passeggero. La distrazione della fine del mondo di La strada ovviamente non era una semplice distrazione, ha funzionato in qualche modo come la sovraesposizione in fotografia: cosa, se non l’Apocalisse globale, può portare a magnitudine massima i deserti metafisici di New Mexico e Texas? Come spingere il dispositivo geologico, così importante nell’immaginario mccarthiano, a un livello tanto esponenziale da bruciare la pellicola narrativa e calcizzare trama, dialoghi e paradigmi filosofici? In questo senso, La strada è parso a molti un “non-oltre”, da qui la sensazione rassicurante che “dopo” non si potesse fare più nulla. Invece, nei 16 anni che vanno dal 2006 al 2022, è successo qualcosa di vertiginoso nella testa di McCarthy, qualcosa che è tanto palese da nascondersi: l’Apocalisse è nel tempo, solo la fine del Tempo è il vero Deserto.
“Vi racconto una storia. L’ultimo degli uomini è solo nell’universo che si oscura intorno a lui. Piange ogni cosa con un unico pianto. Nei resti pietosi ed esausti di quella che un tempo fu la sua anima non troverà niente da cui plasmare la benché minima cosa divina che lo guidi negli ultimi di questi giorni.” (p. 368)
Il passeggero ha deluso e innervosito molti lettori. Si è parlato di buchi di trama, di misteri lasciati a marcire nella stanza romanzesca, di stile a tratti stanco, senile, ma se in quasi sessant’anni di carriera McCarthy avesse scritto per la trama o per compiacere il lettore di romanzi sarebbe solo l’ennesimo Pulitzer. Diciamo che aspettarsi da lui un romanzo piacevole, comprensibile, bello, scritto bene, pieno ancora una volta di assoluto e di sangue sarebbe come chiedere a una libbra di carne di fare la rapa. Semplicemente, in Il passeggero, il vecchio dei vecchi ha mollato lo zaino, si è tolto scarpe e vestiti ed è entrato nel Grande Fuori Salato, cioè il mare, e il suo doppio metafisico, l’universo entropico. Per farlo in maniera spietata aveva bisogno di un personaggio ibrido, una funzione narrativa e metaforica in grado di unire l’astrazione della fisica quantistica e la realtà corporale del sommozzatore di relitti: Bobby Western. Bobby è il figlio di un collaboratore di Oppenheimer, è l’innamorato incestuoso di una bellissima matematica suicida, sua sorella, Alice Western, ed è il reduce di un grave incidente in Formula 2 che stronca la sua carriera di corridore professionista. Ma ovviamente Bobby Western è lo scandaglio di McCarthy per guardare nell’Abisso, col minimo indispensabile di letteratura.
Che cosa vede allora McCarthy? Che cosa ci fa vedere? The Apocalypse every time, everywhere: la Fine si è sposta nella trama stessa della materia, e della psiche. Non c’è più bisogno di far crollare mondi interi attraverso qualche catastrofe irredimibile, non è più necessario inscenare voluttuosi massacri o crolli desolati di popoli, generazioni, famiglie e individui. Adesso il collasso si compie e completa nel corpo e nella mente di due geni irrimediabilmente soli, Bobby e Alice che, come l’aereo che il primo va a ispezionare sul fondo del mare, giacciono prigionieri di sé stessi, condannati a un oceano di consapevolezza incomunicabile. Come relitti ermetici, la loro intelligenza e conoscenza superiori li condanna a un’apnea interminabile, senza la possibilità di salire in superficie, nel sollievo della normalità e della vita comune. A questo punto, allora, McCarthy non ha nemmeno più bisogno di un’allucinata scenografia geologica per allestire un maestoso correlativo oggettivo della tragedia dei personaggi. McCarthy passa al mare, il non-paesaggio per eccellenza, il luogo senza forma e di tutte le forme possibili, il Grande Onirico che anche in Avatar 2 “è intorno a te e dentro di te”. Ora, in questo mare desolato, in questo Panopticon senza palpebre, i veri paesaggi residui, come isole nella corrente, sono i molti personaggi solitari in cerca di sopravvivenza. Non solo Bobby e Alice, ma un’intera corte dei miracoli, una banda di idioti savant in bilico tra John Kennedy Toole e Teilhard de Chardin, tra Shakespeare rimasticato da Melville e Pinter trapiantato a New Orleans. Un bricolage esistenziale teatralizzato che, pagina dopo pagina, arriva a comporre una specie di corpus di citazioni ultime, di editti lapidari e inappellabili sull’entropia del cosmo e della vita umana.
“Forse fu un cane a svegliarla. Qualcosa per strada nella notte. Poi, il silenzio. Un’ombra. Quando si voltò c’era una cosa sul davanzale. Rannicchiata sulla panca con le mani artigliate ai ginocchi, sguardo lascivo, la testa che ruotava lentamente. Orecchie d’elfo e occhi gelidi come biglie di marmo nella luce cruda della lampada al mercurio del giardino proiettata sul vetro. Si mosse e si voltò. Una coda di cuoio scivolò sopra le zampe di lucertola. Gli occhi ciechi la misero a fuoco. La testa ruotò sul collo sottile cinto da un collare di ferro nero. Lei segui quello sguardo senza palpebre. Qualcosa nelle ombre oltre la luce dall’abbaino. Alito del vuoto. Un’oscurità senza nome né misura. Lei nascose la faccia tra le mani e sussurrò il nome del fratello.” (p. 105)
Matematica, sogno, allucinazione. Ai personaggi reali incrociati da Bobby in un Sud ormai kitsch, fanno eco le apparizioni spettrali della schizofrenica Alice. Forse potremmo fermarci qui, accontentandoci di questo estremo dono, una coppia di romanzi, Il passeggero e Stella Maris, che si fronteggiano come due demoni babilonesi, enigmatici, infestati di cantilene oscure. Ma ci sono due easter egg che ci permettono di fare ordine, almeno un po’, se a qualcuno interessa: il velivolo sommerso nel Golfo del Messico e il Progetto Manhattan, il primo, in cui risuona il disastro aereo di Il silenzio di DeLillo, il secondo, che resta impigliato in una rete di riferimenti molto recenti a Oppenheimer. Non penso a Stefano Massini, ma a Christopher Nolan, che ha voluto rileggere la figura del fisico americano in chiave antropocenica, un visionario completamente solo di fronte al collasso cognitivo di una generazione che non riesce a immaginare il terrore. L’aereo sommerso, invece, oltre che metafora del volo cieco di un’epoca e dell’inabissamento della psiche contemporanea nel non immaginabile, è un equipaggio di zombie, il paradosso materializzato in cui la non-vita e il non-tempo sono diventati l’essenza della nostra vita e del nostro tempo. Da un lato, dunque, ci sono i sogni preistorici, gli animali dipinti nelle caverne, le origini biologiche e culturali dell’immaginario, dall’altro ci sono relitti di ferro e di carne che sognano occasioni perdute, ipotesi irrealizzabili, teorie alternative dell’universo, futuri di fuga.
“Faceva il suo ingresso mezza nuda con uno strascico di ermisino o forse solo i suoi drappi greci e attraversava un palcoscenico di pietra nelle luci fumose della ribalta oppure abbassava il cappuccio della tunica e i capelli biondi le ricadevano sul viso mentre si chinava su di lui steso tra le lenzuola umide e attaccaticce e gli sussurrava sarei stata la tua via all’ombra, la custode dell’unica dimora in cui la tua anima è salva. E nel frattempo un clangore come di fonderia e oscure silhouette in controluce attorno ai fuochi alchemici, la cenere e il fumo. Il suolo era disseminato delle forme abortite dei loro sforzi e tuttavia loro si accanivano, l’argilla grezza semi-senziente che fremeva rossastra nell’autoclave. In quel fosco penetrale si accalcano attorno al crogiolo spintonando e farfugliando mentre nel suo manto crespato il profondo eresiarca di quell’oscurità li esorta allo sforzo. E allora quale orrida cosa si erge grondante attraverso la crosta e il calice da quella salamoia infernale. Si svegliò sudato e accese l’abat-jour e mise i piedi a terra e rimase lì con la faccia tra le mani. Non avere paura per me, aveva scritto lei. Quando mai la morte ha fatto male a qualcuno?” (pp. 184-185)
McCarthy, che è partito da un allora ancestrale, ci consegna un adesso dissipativo. Nel saggio The Kekulé Problem del 2017 aveva già tracciato un vettore tra inconscio prelinguistico, produzione delle immagini e cognizione simbolica. Ma in questo sondaggio profondo sembrava aver escluso la variabile della psiche disfunzionale. Come dicevo all’inizio, l’irriducibilità del rapporto padri-figli è un motore potente in McCarthy, così potente in Il passeggero da sacrificare sul suo altare Bobby e Alice, che per un feroce disegno karmico si trovano a pagare con la propria vita i peccati di un padre che ha contribuito a creare l’atomica. Il romanzo, la cui genesi rimonta agli anni Settanta, non poteva però rimanere intrappolato nell’immaginario ormai esausto dell’olocausto nucleare. In maniera carsica intercetta invece altre ansie, nuove inquietudini, faglie invisibili ma vivibili. In questo senso, Il passeggero è una cartina al tornasole che registra l’acidità dei tempi. Con un movimento verso il dissolvimento psicologico e cosmologico che ricorda molto da vicino il passaggio da The Overstory a Bewilderment di Powers, l’Antropocene terrestre e terragno di La strada scivola nell’inner/outer space di due amanti impossibili, disperati, e così facendo spinge McCarthy in un’altra dimensione della scrittura, un brusio tra le parole che dice a tutti una frase-deserto, “io non sono io”: non sono McCarthy, quello che volevate, quello che vi aspettavate; non sono Dio, perché Dio è infinitamente più pazzo e malvagio di me; non sono un narratore onnisciente ma indifferente, perché a novant’anni vi do una polifonia entropica che mentre si fa si cancella. Io sono il decimo passeggero, quello mancante… Fatene ciò che volete. Ça m’est égal.
“La tempesta passò e il mare scuro si stendeva freddo e greve. Nelle gelide acque metalliche le sagome ribattute di enormi pesci. Nei flutti il riverbero di un bolide liquefatto che avanza nel firmamento come un treno in fiamme. Si chinò sulla sua grammatica alla luce della lampada. Con il tetto di paglia che sibilava nella campana di tenebre sopra di lui e la sua ombra sulla superficie grezza del muro. Come quegli studiosi dei tempi andati che sgobbavano sui loro rotoli nelle loro fredde stanze di pietra. I paralumi delle lampade fatti di gusci di tartaruga bolliti e raschiati e forgiati in un torchio e le geografie casuali che proiettavano sui muri della torre paesi ignoti agli uomini così come ai loro dèi. Alla fine si sporse e raccolse le mani intorno al cilindro di vetro e soffiò sulla fiamma e si stese nel buio. Sapeva che quando sarebbe morto avrebbe visto il suo volto e sperava di portare con sé quella bellezza nelle tenebre, ultimo pagano sulla terra, cantando piano sul suo giaciglio in una lingua sconosciuta.” (p. 385)
Matteo Meschiari