I primi dieci Dispacci sono apparsi ogni martedì su “Doppiozero” dal 5 luglio al 6 settembre 2022. L’ultimo è uscito su “Passion&linguaggi” il 1 settembre 2022.
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#1 – Nuovo bestiario minimo
Dallo spagnolo despacho, un tempo missiva del ministero degli affari esteri alle sue rappresentanze diplomatiche, portata da corriere o staffetta, di importanza amministrativa o militare, spedita dal centro alla periferia. Ma anche spaccio e disimpaccio, cioè lo smercio di prodotti anomali, la forza di uscire da un vicolo cieco… L’Antropocene ci manda dispacci dal futuro attraverso indizi sparpagliati nel presente. Tracce periferiche di una deflagrazione invisibile, grumi di caglio nel latte magro, immagini e idee che con il giusto colpo di reni potremmo tradurre in paradigmi, in strumenti operativi per reagire al collasso del Tardo Occidente. Un indizio ancora caldo inviato da un altro-quando al nostro adesso-qui è Colibrì Salamandra (Einaudi 2022) di Jeff VanderMeer, un libro che è un romanzo bizzarro e un manuale di mutazioni: il mondo sta per finire, inghiottito dai deliri e dagli errori gestionali della nostra specie, ma nessuno se ne accorge, tranne Jane che, indizio dopo indizio, avvolta in una rete di eventi sempre più stretta, passa dalla consapevolezza dei propri personali disastri alla scala globale della Sesta Estinzione. In equilibrio instabile tra eco-thriller e detective story, il romanzo spaccia un duplice paradigma per aiutare Homo sapiens a cavarsi d’impaccio: la condizione attuale è ciò che accade quando, nonostante tutti i segnali, non si vuole vedere e non si passa all’azione; il fallimento dell’azione è conseguenza diretta del fallimento dell’immaginazione. Perché sì, l’immaginazione può (e deve) offrire soluzioni concrete alla crisi, ma per farlo non può accontentarsi dell’esercizio fantastico, deve arrischiarsi nelle sabbie mobili della visione. Con una mise en abyme meta-narratologica, Jeff VanderMeer si cala allora nei panni di Silvina Vilcapampa, una scrittrice visionaria (e, come Jane, paranoica) che intercetta con la sua fragilità esistenziale i segnali di un orrore imminente di magnitudine ultima. La storia del libro è una storia attuale, ma il messaggio riguarda il ruolo dello scrittore oggi. Non il pavone egocentrato o la ghiandaia che dà un allarme ciarliero, ma il colibrì immobilizzato nei paradossi del tempo. Non la formica previdente o lo scoiattolo accaparratore, ma la salamandra che si reiventa nel mito e sopravvivere al fuoco.
#2 – L’arazzo di ogni tempo
Skellig Island, 17 km dalla costa del Kerry, sede di un monastero del VI secolo e set degli ultimi episodi di Star Wars: Luke Skywalker e i manoscritti Jedi come Colombano e gli antifonari negli oratori celto-cristiani. Il neomedievalismo, il futuro trapassato, le New Dark Ages. Dietro questa glassa troppo facile c’è uno scavo più importante da fare: il percorso carsico delle immagini, la pista warburghiana, l’iconologia immaginifica. Oggi stanno nascendo nuovi bestiari, nuovi scriptoria stanno per essere fondati, nuovi imbuti culturali decideranno che cosa resta e che cosa calerà nell’oblio. Una parte del sistema intellettuale italiano, ancora settato agli anni Novanta del Novecento, prova a perpetuare canoni sempre meno riconosciuti da attori e spettatori culturali. Invece ci sono esploratrici e contrabbandieri che hanno capito che bisogna andare a Skelling Island per ripensare tutto. È quello che è accaduto ad esempio con il progetto corale Being There. Oltre il giardino. Tutto parte da una call con una sola, semplice domanda: “qual è la tua idea di luogo naturale?”. Nello spazio di due anni, fino al 31 gennaio 2022, sono state raccolte circa 400 risposte, (immagini, testi, schizzi) tutte ridisegnate da Claudia Losi e riportate su una banda di tessuto jacquard lunga 18 metri. L’esito è un arazzo multiprospettico, multistabile, multicomplesso che, come un paesaggio di paesaggi, combina tra loro quattrocento sguardi diversi sul senso del luogo, sul concetto di ambiente, sul rapporto tra identità e immaginario, fino a comporre un rotolo narrativo zoo-fito-terio-geo-grafico delle alternative possibili alla distruzione del sistema-Terra. L’arazzo è stato esposto alla Rocca Roveresca di Senigallia, un grosso forziere medievale-rinascimentale che palesa così una connessione quasi ovvia, quella con il grande Arazzo di Bayeux: 68 metri di tessuto ricamato con le vicende dell’invasione normanna dell’Inghilterra del 1066, 1515 immagini di persone, animali, edifici, alberi. Ma perché è stato fatto? Propaganda? Celebrazione? Conciliazione? Forse una benda per fasciare il trauma dell’invasione, un esorcismo benaugurante sull’orlo della catastrofe? E che cosa c’è oltre il giardino decaduto? Il medioevo prossimo venturo sarà pieno dei messaggi che sapremo lanciare oltre la faglia del tempo.
#3 – Libera nos a nobis
Se credete nella crisi climatica e nel collasso sistemico, c’è un pellegrinaggio antropocenico che dovete fare per forza. Si è celebrato da poco il trigesimo (1991-2021) al Museo Archeologico di Bolzano, un tempio laico che accoglie annualmente decine di migliaia di fedeli, noto ai devoti come il Sacrario dell’Uomo dei Ghiacci. Dopo una coda prodromica che invita alla contrizione e all’esame interiore, sarete immessi in un vestibolo dalle luci criptali, dove video d’epoca e didascalie-stele, una stazione dopo l’altra, ricostruiscono le tappe del processo di beatificazione di Ötzi, un non piissimo viator dell’Età del rame morto, si dice, in odore di martirio. Al primo piano della basilica, in un’inversione sacrale un po’ spiazzante, si accede ex abrupto alla contemplazione della salma. Il fercolo-frigorifero si offre al praticante come una grande ara d’acciaio ultraterreno, al centro della quale un oblò di cristallo ostenta la mummia (e le sue monche nudità) al pellegrino. Qui, tra bisbigli e silenzi compresi, una lunga e ordinata processione di donne, uomini e bambini transita e per qualche attimo staziona in presenza del santo per interrogarne le labbra (raggelate in smorfia) con un’unica corale domanda: “ma noi ce la faremo?”. Il suo mutismo impietoso si stempera un po’ alla volta nel reliquiario accanto, dove berretto d’orso, gambali di capra, calzari, giacca, mantello e perizoma, rivestono idealmente la salma, riportandola a una quotidiana umanità. Anche l’arco non finito, così simile a un vincastro, le frecce in lavorazione, la daga spuntata, i turiboli di betulla, il telaio dello zaino-fardello, i semi e i funghi per viatico, ci parlano di un microcosmo che il viandante alpino portava con sé in una cerca misteriosa che, forse in ritardo, ci consegna alla sua e alla nostra territà: emerso in forma di mummia all’inizio del Grande Surriscaldamento Globale, nato nell’epoca dei primi passi dell’industria umana, Ötzi è martire-testimone ignaro di un molteplice cambio dei tempi, è portatore del miracolo negativo dell’Antropocene, è icona bizantina di ogni fine e, come in una ars male moriendi, si sacrifica retroattivamente per noi nella speranza di salvare la Terra dai peccati della specie. Così, se andrete a fargli visita, dovrete provare compassione per lui (e per voi stessi) o sarete perduti.
#4 – Prepararsi al dopo
Istituto per il Futuro di Palo Alto, California. Nasce Superstruct, una simulazione di sei settimane per mappare le conseguenze politiche, sociali, economiche ed emotive di una minaccia globale, ad esempio una pandemia. È il 2008. A inizio 2020, Jane McGonigal, lead desiner del progetto, fa un webinar dove illustra per filo e per segno ciò che di lì a poco sarebbe accaduto a livello globale, dai focolai di superdiffusione al trauma psicologico del lockdown. L’incontro era organizzato come una lista di consigli concreti per affrontare l’emergenza, ma il suo contributo, nonostante l’accuratezza delle previsioni, è stato ignorato nella gestione politica e psicologica dell’emergenza. Chi invece aveva partecipato alla simulazione del 2008 è stato in grado affrontare gli eventi con più sicurezza e con una dose molto più bassa di stress. McGonigal osserva: “credo che il ruolo di una simulazione sia preparare le nostre menti e migliorare la nostra immaginazione collettiva, in modo da essere più flessibili, adattabili, agili e resistenti quando ci troveremo ad affrontare l’incredibile”. Da qui nasce il libro Immagina. Giochi, scenari e simulazioni per prepararsi al futuro e coltivare l’ottimismo urgente (ROI Edizioni 2022), un manuale di allenamento dell’immaginario che, con consigli, esercizi e input motivazionali, si propone di insegnare al lettore a compiere viaggi virtuali avanti nel tempo. In un paese come l’Italia, dove se tutti giocassero a scacchi saremmo gli ultimi del torneo perché affronteremmo la partita una mossa alla volta, in un clima di atavica e orgogliosa avversione agli scenari di previsione, il libro di McGonigal arriva come un manufatto extraterrestre. Diciamo che per ora può interessare solo alcune sottoculture locali: gli scrittori di anticipazione in cerca di idee, i prepper cognitivi che pensano di vivere in un’epoca di collasso, i semiologi che si occupano di narratologia del contemporaneo, i professionisti del coaching e dello storytelling applicato, gli educatori che pensano che parlare di Antropocene a scuola sia necessario e urgente. Per tutti gli altri è sufficiente il pensiero che la pandemia sia finita e la guerra lontana: una mossa alla volta, senza immaginazione, verso lo scacco matto.
#5 – Capitalocene?
C’è fastidio verso la parola Antropocene, soprattutto verso chi la usa. Per distinguersi, forse per fare dispetto, c’è chi si inventa alternative in “-cene” che sono come pulcini un po’ fragili sotto la Grande Chioccia Oscura. Alcuni di questi “-cene” hanno più fortuna di altri, ad esempio “Capitalocene”. L’idea è che sia ingiusto dire che tutti gli umani sono ugualmente responsabili del crollo dei tempi, solo alcuni lo sono, i vecchi capitalisti. Ma chi parla di Capitalocene nel 2022 è in ritardo come chi pensa che la differenziata, abbracciare alberi, lo sviluppo sostenibile siano la vera soluzione. Dire “Capitalocene” dopo una pandemia globale e in pieno disastro climatico significa non aver colto l’essenziale: la lotta al capitale è cosa buona e giusta ma non basterà mai per invertire la rotta. Se insomma il capitalismo crollasse oggi, i suoi effetti disastrosi rimarrebbero ancora per secoli. Detto altrimenti: finisce il capitalismo, la catastrofe resta. Bisogna allora fare lutto per la morte di un certo marxismo da bar: la vera urgenza non è lottare (magari da una bacheca social) contro un dato sistema economico ma inventare soluzioni di sopravvivenza per tutti. Certo, i tempi e i modi rischiano di essere gestiti dalla macchina neoliberista, dalle élite finanziarie, dai nuovi oligarchi, bisognerà restare vigili e combattivi, ma accontentarsi di slogan come “non è l’Antropocene, è il Capitalismo” o “fine del mondo, fine del mese, stessa lotta” è come lamentarsi su Facebook con il produttore di automobili (che non ti legge e dorme sonni tranquilli) mentre tu stai precipitando nel burrone (con l’automobile che hai comperato dal tuo nemico). E mentre la parola Antropocene non dice che tutti gli uomini sono la causa del problema ma che il problema è un problema di tutti gli uomini, la parola Capitalocene ci obbliga a vedere il dito e non la luna, imprigionando il pensiero in una dicotomia senza uscita. La soluzione, se mai la troveremo, non verrà dalla lotta virtuale con un deuteragonista, ma dal trovare alterità non alternative attraverso cui ripensarsi. Pensare tilacini, ad esempio, è molto più concreto ed efficace che leggere gli epigoni di Marx.
#6 – Territà
I ghiacciai si sciolgono, si sciolgono davvero, ma il mormorio delle loro acque di dissoluzione o il boato dei loro crolli non generano giganti cosmogonici come nella mitologia norrena, fanno spuntare buchi che si moltiplicano in un inesorabile incubo tripofobico. La vera essenza dell’Antropocene è questa, la smagliatura senza rammendo, la dispersione termica senza neghentropia. Per questo, alla ricerca di antidoti, nel bisogno di un logos rigenerativo, più che di un veteroumanesimo zombie o di un ex machina apocalittico, avremmo bisogno di studiare una salvezza generazionale a partire dalla territà. La territà non è la vecchia Terra rivisitata o un nuovo gadget concettuale, non è un ectoplasma editoriale o una mistica ciarlatana, la territà è quel modo che ha il Cosmo di prendere coscienza di sé attraverso la capacità immaginativa di Homo sapiens, a partire dai suoi piedi, dal terreno che la nostra specie pensa e racconta da sempre camminandoci sopra. Eppure, saggi e romanzi sul disastro ambientale non riescono a isolare frammenti di territà, la lirica bucolica ecocentrata è un eterno sbadiglio, così ci vuole altro, e quello che manca è il tempo, quello profondo, “geologico”, e quello complesso, collassato su sé stesso, dove presente, passato e futuro sono come gli strati di una torta caduta per terra, esplosa. Dove dobbiamo guardare, allora? Per seguire indizi di territà ci sono autori fuori dal radar, come i geografi anarchici (Reclus, Kropotkin, Bertoni), come i “poeti della terra” (Juan Liscano, Lorand Gaspar, Kenneth White), e poi ci sono anche esploratori completamente anomali, come Frederick Turner e i suoi poemi epici: The New World (1985) sulla Terra nel 2376, Genesis (1990) sulla terraformazione di Marte, Apocalypse (2012) sul destino climatico del nostro pianeta nel 2067. Oggi l’epica (non i suoi surrogati senza tecnica e profondità antropologica) sembra tornare nella riflessione narratologica perché propone un modello di tempo alternativo alle poetiche dell’istante e del progresso lineare, una visione più coerente per scala e dinamiche al nostro bisogno di territà. Quale domani si prepara per chi sa leggere epica oggi? Quale oggi non siamo in grado di leggere perché ci manca una prospettiva epica?
#7. Predatori o prede?
La predazione è una questione ontologica. In alcune declinazioni dell’Animismo le anime predano o sono predate: la caccia, l’uccisione, la violenza di specie sono narrativizzate, formano un sistema inferenziale di lettura del mondo che lascia poco spazio ai dubbi del neoliberista moderno sul consumo della carne. La predazione è anche una questione metafisica. Bruce Chatwin, intervistando Bob Brain che aveva studiato alcuni cumuli d’ossa preistorici e aveva scritto un libro bellissimo, The Hunters or the Hunted (1981), inferisce che il predatore alfa responsabile di quella “carneficina”, il Dinofelis, una volta estinto avesse continuato a generare incubi nei primi uomini, trasformandosi nella prima versione interiorizzata dell’Anticristo. L’argomento affascina e continua a nutrire la cultura popolare perché, anche se non siamo animisti amazzonici o cristiani fondamentalisti, intuiamo che la partita non è chiusa nemmeno dopo qualche milione di anni di evoluzione, ma continua a generare fantasmi emotivi e filosofici. L’ultimo neonato prodotto di genere è Prey (agosto 2022) del regista americano Dan Trachtenberg, spin-off della saga Predator ambientato nel 1719 tra i Comanche delle Grandi Pianure. Il film è carino, una versione un po’ più splatter di The Brave (2012), godibile praticamente dall’inizio alla fine anche se, come al solito, etnograficamente e storicamente pieno zeppo di cialtronerie. Il punto però è un altro, e la domanda che l’accompagna è semplice: che senso ha raccontare oggi la storia di un alieno supercacciatore-predatore-hyperalpha ambientata nel Settecento tra Nativi bellissimi, fieri e intatti e Francesi brutti, sporchi e cattivi? La stessa domanda vale per The Northman (2022), una storia diretta da Robert Eggers in bilico tra Shakespeare e Vikings che trasforma un’ossessione di vendetta in atti seriali di predazione primaria. Qualcosa nell’immaginario contemporaneo sta intercettando una mutazione antropologica? L’epica arcaica somiglia stranamente al futuro di guerra che ci attende? Il domani, invisibile come Predator, sta attaccando il nostro primitivo presente? E in definitiva, dopo essere stati predatori, stiamo diventando le prede ignare di questo pianeta agli sgoccioli? La storia di Trachtenberg insiste proprio su questo: essere preda o predatore è relativo, l’umanità non è più una questione di scelta morale, ma di chi vede più a fondo, più lontano.
#8. Un dove
Di cosa potrebbe parlare un dispaccio che non parli di romanzi o saggi o film od opere d’arte? Potrebbe, forse dovrebbe parlare di un luogo. Questo luogo, oggi, sono i Fiordi Occidentali in Islanda. Se ne stanno lassù come chele di granchio protese verso la Groenlandia, e per il resto dell’Islanda funzionano come un geroglifico di selvatichezza remota e di limite inespugnabile. Il punto è capire perché una geografia quasi aliena abbia a che fare con il nostro bisogno di capire l’Antropocene come epoca e come crollo interiore. Moltissimi di noi non ci sono mai stati, lassù, e non ci andranno mai, ma il loro essere terra di fabbri storpi dodicenni, di femmine troll che pigiano come uva amara i corpi dei malcapitati viandanti, di ghiacciai per cui si fanno necrologi o di vulcani nel cui tefra dormono i non-morti, tutte queste cose e altre ancora non sono utili per pensare il futuro, a meno che nel passato, il loro o di qualunque altra regione del mondo, non alberghi qualche algoritmo ripetibile. Ecco invece l’essenziale: i Fiordi Occidentali sono un dove che non ci appartiene, che non appartiene a nessuno, nemmeno ai suoi abitanti, nemmeno ai redattori di saghe o ai tagliatori di barche e di carne di squalo. La terra, il territorio, appartengono in qualche misura a qualcuno, per poco o per molto, giustamente o ingiustamente. Un dove, invece, è una geografia apolide, un transito effimero che si può solo immaginare. Ora, se moltiplicassimo i dove inespressi, alieni, irriducibili, se lo facessimo non come liste eleganti o come atlanti patinati, ma come abissi del turbamento e del non detto, forse aggiungeremmo al repertorio di cose utili per sopravvivere dei nuclei pulsanti di mistero, degli altrove verso cui pregare e camminare contro l’oscenità della morte. Abbiamo bisogno di nuove caverne dipinte, di nuovi miti di creazione, di leggende di arrivi e di partenze, di zone bianche sulla mappa. La notizia è che ci sono, sono lì da sempre, ma se prima di questa mattina non avevate pensato ai Fiordi Occidentali d’Islanda, allora è molto probabile che l’Islanda non sia mai esistita, proprio come il futuro che ci attende.
#9 – Di monaci e zombie
Per ogni evenienza, prima di entrare nel cono d’ombra del prossimo inverno politico, sarebbe bene leggersi Knowledge. How to rebuild our world from scratch (2014) di Lewis Dartnell, ma la verità è che siamo già fuori tempo massimo: sarebbe come andare in armeria dopo l’apocalisse zombie, cioè dopo la Caporetto cognitiva che ha piegato il Bel Paese. Un tempo gli zombie erano metafora del consumismo capitalista, oggi sono diventati marionette della narrazione antropocenica delle élite, ma gli zombie restano comunque zombie: sono lenti, stupidi e soprattutto puzzano. La metafora è ovvia, anche se continuiamo a comprare i loro romanzi e a credere alle loro millanterie, quello che però dobbiamo sapere è che gli zombie non possono morire e vanno in giro per anni a impestare l’aria. L’unica cosa da fare è non mettersi sottovento. Quello che occorre, insomma, è un nuovo lockdown volontario, non contro pandemie, guerre o maree di calore ma per proteggerci dal collasso dei sistemi culturali, politici e immaginativi che ci ha investito. Non esiste un libro per “informarsi” su tutto questo, c’è solo un patchwork di saperi, tattiche e scenari, e anche se esistesse un manuale di sopravvivenza complessa nessuno ormai se lo leggerebbe. La realtà è che a portata di mano non ci sono scrittori in grado di ispirare una generazione, non ci sono leader politici disposti a difendere i più deboli e a pensare in lunga durata, ci sono pochissime esperienze sociali in cui si possa coltivare un immaginario alternativo. In ogni caso, l’Italia culturale è stata traghettata verso l’orlo del mondo da un equipaggio di poser e intellectual yet idiot, ed è tempo di salvare il salvabile: “le comunità monastiche di sopravvivenza saranno acquartierate in luoghi alti, perché in un’epoca insicura sono più facilmente difendibili, […] potrebbero essere costrette a vivere per tempi piuttosto lunghi nella clandestinità […]. Una continuità culturale efficiente potrà essere assicurata solo se in una sequenza ininterrotta di individui si riprodurranno abitudini, capacità, padronanza di nozioni, interessi e tradizioni di tipo costruttivo […]. Gli aggregati umani si degradano, le decisioni dei potenti li spingono verso la instabilità e non avrebbe senso il tentativo di invertire queste tendenze con una semplice diffida rivolta alla società e ai governi. Solo le esortazioni ai singoli possono avere conseguenze dirette e limitate”. Era il 1971. Roberto Vacca, mezzo secolo fa, stava lanciando un sasso nel nostro adesso-qui. Aveva ragione? Per quel che mi riguarda, nel monastero, mi occuperei di epica e saperi brassicoli.
#10 – Danza macabra
Ordigni nucleari, pandemie, disastri climatici. Distopie, fantastalgie, escapismi. La Bottega dell’Antropocene è ormai piena di cianfrusaglie inutilizzabili. L’immaginario selettivo che l’Italia ha generato è grossolano quanto coloro che hanno provato a gestirlo per rivenderselo in salsa neoliberista. I discorsi che l’accompagnano sono calibrati su un pubblico ritornato bambino perché trattato da bambino per decenni. Anche una compagine di eventi manifesti viene esorcizzata come un oggetto letterario qualsiasi da una classe di spin doctor che una volta chiamavano sé stessi intellettuali. Che cosa è successo? Immaginiamo una leadership politica che abbandona battaglie fondamentali, che annacqua nel tecnicismo l’ideale di un tempo, che litiga e si disgrega come una famiglia attorno a una grossa eredità inesigibile. Una leadership che per stanchezza e fatalismo regala il Paese a una nuova corte di avventurieri salsicciai. Immaginiamo una classe culturale che invece di ispirarla, stimolarla a reagire, invece di scuoterla e richiamarla ai propri doveri etici e immaginativi si è adeguata al nuovo standard politico e, più realista del re, si è lasciata contagiare da un desiderio di sicurezza e poltrone. Guardatela: il mismanagement viene sistematicamente negato nelle dichiarazioni ufficiali, l’incompetenza viene nascosta da successi a breve termine dovuti a contingenze occasionali. Intanto la danza macabra dell’Editore, dello Scrittore, del Critico, del Giornalista, del Lettore, del Social Media Manager, del Blogger, del Podcaster si avvicina un saltello alla volta alla Grande Scarpata. Come sarà la vita dell’operatore culturale sotto un governo politico oscurantista e repressivo? Chi sopravvivrà, e come, facendosi notare il meno possibile nella Palude dei Solo Normali? Di solito nelle danze macabre ci sono scheletri e cadaveri in primo piano. Nessun contesto, nessuno sfondo, nessun personaggio esterno, nessuna via d’uscita per l’occhio e la mente. Ma questa volta qualcosa c’è. Non si trova nei Saloni e nei Premi letterari, ma nelle Scuole e nei Parchi degli amanti. Le ultime comunità desideranti sono lì. Saranno le prime a riemergere dalla cenere con quello che avremo messo nelle loro tasche. Quanto a noi, se ci saremo, ci rivedremo oltre la faglia.
#11 – Fermarsi altrove
Restare, partire, perdersi. La nostalgia li lega. Una nostalgia che scivola spesso nella negazione dell’adesso-qui, nell’escapismo fantastico o lisergico, nell’autoconforto onanista. Farne poetiche, scriverci libri intelligenti, radicarsi in un’estetica dello spazio ridotto che fa il paio con le estetiche esauste dell’interiorità, è quanto di più ordinario (e tossico) possa accadere nell’epoca dei sentimenti in saldo. È una specie di resa, di rinuncia a quella complessità che unica, che ultima, potrebbe salvarci dall’immobilità ebete che ci attanaglia di fronte al collasso. Non ci sono chiacchiere a margine dell’immaginario che possano additare delle vie di uscita. Non ci sono analisi dell’apocalisse che regalino istruzioni per l’uso su come saltare la faglia. Ci vogliono degli antidoti, invece, dei meditabili, dei paradigmi portatili da accendere ogni volta che stanchi o spaventati ci spegniamo, perché le filosofie del rallentare, della pausa, della sosta, del mettere radici, dello stare, dell’essere-contro-il-fare hanno quasi sempre dentro di sé il virus della delega, quel regalare la soluzione (e il controllo) di un problema a qualcun altro, quando invece si sarebbe potuto, quando sarebbe stato meglio farsene carico, e dignitoso provarci. L’Antropocene non è solo un evento materiale e mentale, fattuale e immaginale, ma è la verticalizzazione della coscienza, nel senso che per sapere davvero che cosa accade, per intercettare l’unicità dei tempi e prepararsi ai crolli imminenti, non si può più negare o delegare, non c’è più tempo lineare in cui fermarsi. È arrivato il momento invece di ridiventare Sapiens, di riattivare quei motori di evoluzione che in 150.000 anni ci hanno reso chi siamo: un immaginario preverbale da consegnare intatto alla parola, un nomadismo ostinatamente centrato sull’altrove, una ricerca venatoria e traceologica del sacro. Se arrivano/ritornano stagioni oscure, reflussi di ignoranza, smagliature cognitive generalizzate, fermarsi non è la soluzione: l’isola, la torre e il bunker non sono la ritirata che serve. Le comunità di sopravvivenza che si dovranno, che avremmo già dovuto attivare, potranno invece funzionare non perché saranno dislocate in qualche margine atemporale, in clandestinità, ma perché si muoveranno al proprio ritmo in posizione laterale, puntando a un altrove in cui la dittatura dell’io stanziale non può prevalere. Come un viandante alpino della prima età dei metalli, dovremmo portare addosso un microcosmo di materiali e strumenti per fare bricolage cognitivo in totale autonomia, dovremmo farci abitare il cervello da immagini di luoghi e bestie e amplessi tanto più feconde quanto più mute alla banalità di un romanzo, dovremmo imparare a seguire tracce di sacro come un cacciatore terrestre, inebriato di territà, nomade inesausto sull’unica Terra che resta. Come un pater familias terrorizzato dalla calata di Alarico dovremmo approntare un ripostiglio di tesori, e invece di metterci dentro monete e statuine di lari dovremmo depositarci un flauto, un coltello e un decalogo del mutuo appoggio per le bande dei ragazzini a venire. Non c’è molto altro da fare. I libri fanno silenzio, oggi. Sono macchine senza autista abbandonate in un parcheggio illimitato. Continuano a essere prodotte per inerzia ma gli umani per cui erano fatte si sono appena estinti, e i motori non c’è nessuno ad accenderli. Il silenzio delle biblioteche non è mai stato così violento, così colpevole. E allora, per chi ha ancora gambe nel cervello, l’unica è camminare laterale per fermarsi altrove. Svegliarsi al mattino, raschiare un po’ di fungo dei tronchi sui trucioli secchi, battere la selce contro la marcassite alcune volte, soffiare sulla favilla, soffiare, con gli occhi che lacrimano per il fumo guardare i rami in arabesco sopra di sé e immaginare un qualche dio, posare sulla piccola fiamma qualcosa che cuocerà e che darà consistenza ai muscoli di camminatore-camminatrice nei boschi, e dopo, dopo le cose utili e necessarie, ci alzeremo, annuseremo l’aria, seguiremo un animale invisibile fino ai bordi del Tempo.
