Simulazione e preparazione emotiva. Gli ultimi tre romanzi di Emily St. John Mandel

Prossimità

Ecco James Ballard. Intervistato parla della sua infanzia e i ricordi sfumano, la vita nel campo di prigionia, il ritorno in Inghilterra, poi di nuovo sul cibo fornito dai giapponesi, la casa piena di domestici, la paura insieme indotta e reale di essere rapito. La prigionia dello scrittore bambino immaginata come un incubo dall’intervistatore ma Ballard non ha ricordi orribili di quel periodo, lo dice, ripete. Ancora, sui romanzi. In quei momenti è un altro James Ballard, lo dice, lo ripete: ho scritto per avvertire, quelle storie sono per preparare. Ancora: l’unica letteratura che può parlare del futuro non è quella dei Sentimenti. Guarda, il pericolo.

Sono passati decenni da parole e opere di Ballard. Il flusso informativo è quello dell’Antropocene manifesto. Scorrono le immagini di autostrade chiuse, suburbs in fiamme, campi da golf gialli siccità. Deve esserci stato un adattamento dell’innerspace all’outer, forse pre-culturale, cognitivo. Nessun bambino nasce con un apparato capace di digerire plastica. Un adattamento dell’immaginario, altri bias senza nome, a cui si deve ancora dare titoli e segni riconoscibili. Se sì, in questa ricerca dell’Interregno, che romanzi si possono scrivere? C’è una schiatta di scrittrici e scrittori, una comunità del tempo e nello spazio per cui quell’esercizio umano chiamato letteratura prevede lo svolgersi di complessità, rappresentare scena dopo scena il rischio invisibile eppure davanti a ognuno, la tragedia del conoscere il fenomeno che non aiuta a impedirlo, l’inerzia e l’attrito della cervello sapiens come prossimo a un sistema di rappresentazione olografica e la mano che afferra una tazza bollente, lo sguardo del singolo che contiene/prova a contenere la prospettiva della specie, narrare come funzione ordinatrice somma.

Dal mare al Tranquillitatis o della fine del Perturbante

Un giovane uomo attraversa l’oceano, arriva nel Nuovo mondo. È un St. John St. Andrew, tra i suoi ancestors Guglielmo il Conquistatore. Il giovane guarda le febbrili attività delle navi, di una colonizzazione continentale che deve essere compiuta, lui, un animo sensibile, attende, il suo senso del tempo disallineato con quello dell’epoca, un uomo dell’Ottocento nel Secolo breve. I doni degli antenati persi nelle nebbie del tempo e dei geni, si sposta solo quando costretto, non verso il West ma in Canada. C’è una casa sulla collina per lui, da qualche parte circondato da una wilderness che lo affascina e lo sconvolge, ci sono opportunità di commercio, giovani indigene tra corsi d’acqua e la foresta ma Edwin ha tempo, il suo. È il 1912 e un giorno sente qualcosa, incontra qualcuno che non potrebbe essere lì, qualcosa non va, non è quello che dovrebbe essere. Edwin stava aspettando: la Storia, il suo destino, quello che la società occidentale si aspetta da lui ovvero che cuori, menti e braccia siano messe a disposizione per raccogliere la messe del mondo e metterla a frutto per il futuro. E invece e insieme a tutto quello Edwin assiste a un glitch, una perturbazione della realtà, musica che non può in quel momento esistere. Incontra il weird. Un animo gentile Edwin e la sua storia è già scritta: riattraversare l’oceano, combattere nell’inferno inumano della guerra di trincea, la Spagnola.

C’è un’anomalia e va indagata. Sea of tranquility è la storia di un’indagine che scorre per centinaia di anni. C’è una caccia a un fantasma e investigatori e investigatrici allo specchio. Lo shock da anomalia è assente, sostituito da curiosità, tatto, pazienza. Per quanto l’anomalia rimanga una crepa nella realtà per i protagonisti, i cui tool narratologici e culturali sono avanzati, essa diventa evento nello spettro delle possibilità del reale anche quando le anomalie si cumulano come il rischio esistenziale. Anomali eventi, perturbamenti che terremotano, si allargano nel tempo e nello spazio narrativo per poi strabordare: escono dal romanzo per riversarsi verso altri, precedenti romanzi di Emily St. John Mandel.

Il lavoro sul futuro interrotto

Qualche anno e un paio di romanzi prima. Stazione Undici, 2014. Un uomo recita King Lear, una donna osserva il mare e una sezione della megastruttura della logistica nella globalizzazione, la Febbre della Georgia si diffonde; Kirsten è una bambina, la testimone dell’interregno, l’eroina dell’intelligenza emotiva, prima sopravvive, cresce, sana. Membro importante di una carovana di artisti, una comunità nomade resistente, tenuta insieme non da legami di sangue ma dalla fortuna e dal senso, ingenuo o cosciente, di portare la civiltà. La carovana riporta Shakespeare nelle comunità postapocalittiche e combatte contro gli eliminazionisti rimasti.

Il profeta aveva più o meno la sua età. Qualunque cosa fosse diventato, un tempo era stato un bambino sbandato per strada, e forse aveva avuto la malasorte di ricordare tutto. Kirsten passò la mano sul volto del profeta per chiudergli gli occhi e gli mise in mano la pagina piegata di Stazione Undici.

Kirsten porta il dattiloscritto mai pubblicato di Stazione Undici, romanzo di fantascienza, colonie extramondo, viaggi spaziali, speranza mancata, immaginario perso, un futuro interrotto ma è lì tra quelle pagine, scritte per gestire una crisi coniugale forse, che si trovano altre tracce e segni. L’apocalisse pastorale di Kirsten e sopravvissuti è radicale, il mondo è in un’apocalisse da mancata manutenzione, un trope della fine dell’umanità classico, quasi un’impotenza dell’ultimo uomo di Eva Horn. Quasi però ma troppo. La Febbre della Georgia è un apparato virale narrativo estinzionista. La popolazione umana viene distrutta, in tutto il mondo, in poche settimane. La Febbre di St. John Mandel è un virus impossibile, proprio come il Captain Trixie di King o la Peste di Years of Salt and Rice di Stanley Robinson. Nell’opera teatrale scritta e diretta da Emily St. John Mandel il sottotesto non può emergere davvero: il teatro è in pezzi, attori e attrici mancano all’appello, la scena è per forza spoglia. Possibile mettere in scena un iposoggetto mortoniano ma ancora. Serve un’azione, tornare indietro, il messaggio è rilevante come per tutti e tutte coloro che credono che un romanzo sia un modo per tappare la falla nella diga. Stazione Undici è, come tutte le distopie, un complesso di tool insufficiente per spiegare rischi e illustrare le evocazioni dell’Antropocene. Lo scenario da Georgia Flu è ingenuo. Tale rimarrebbe se Stazione Undici concludesse l’opera immaginifica dell’autrice ma così non è. La simulazione Stazione Undici si conclude con protagonista e antagonista allo specchio, l’esperimento è terminato, un altra apocalisse incombe, altre fine del mondo sono adeguate e coerenti, la scrittrice programma ed esegue, continuando la sua opera altrove. Che sta succedendo nel mondo.

Reboot e resilenza dell’immaginario

Una coppia di innamorati non si separa a Lisbona, la catena degli errori e il ciclo delle rivoluzioni si interrompe o cambia e nessun Terminus radioso si compie. Così dopo l’apocalisse può esistere un Hotel di Cristallo.

Col senno di poi è facile liquidare l’isteria di fine millennio – chi se la ricorda, ormai? – ma all’epoca il rischio di collasso sembrava reale.

Un hotel isolato in Canada, regione di Vancouver. Personale al minimo, lusso discreto, raggiungibile solo in barca. Non è il Reichstag, opera di cristallo, immaginata e poi costruita proprio per stabilire un nuovo patto: la trasparenza del potere. L’Hotel Caiette nel Grande Nord, gode di una baia scavata dal ritiro dei ghiacci nell’ultima glaciazione, un rifugio per i ricchi, un ottimo posto dove trovarsi durante una pandemia forse ma non è questo il caso, lo scenario, il romanzo. Lì, come barista, lavora Vincent, la protagonista. Non ci sono cadaveri, sparizioni, il ciclo giorno-notte continua, gli alberi non cominciano una veloce e impossibile fossilizzazione, i superstiti della fauna selvatica non lanciano misteriosi lamenti e nessuna ombra si aggira tra i corridoi o nel parco. Eppure L’hotel di cristallo (2020) è un thriller; e sembra che un evento apocalittico sia in attesa ogni prossimo capitolo. Qualcosa incombe. I presagi sul destino di Vincent scorrono immediati, la vita nell’hotel viene turbata. L’apparente normalità post- fine millennio viene turbata con poco, sconvolta. Qualcuno scrive una frase sul cristallo all’entrata dell’Hotel: Perché non ingoi una scheggia di vetro? L’incidente, l’atto vandalico, la frase viene presto cancellata. Il suo senso però continua a vibrare, ha un frequenza particolare e lettore e personaggi lo sentono. Perché non. L’atto inumano viene respinto dalla mente a fatica. Questo è il crimine del romanzo, la frase-invito-sentenza che crea una crepa nel tessuto metafisico, il crash dello scontro tra inner e outer space. Il tentativo di dimenticare, sminuire la portata del crimine contro la realtà costituito dall’invito a ingoiare una scheggia di vetro – e così svelare la finzione, il complesso di finzioni – diventa estremo. Tanto che Vincent e gli altri personaggi, anche ignari dell’attacco, ne sono coinvolti. Vincent si sposa, non davvero, si trasferisce a Manhattan con un miliardario, genio della finanza. New York, la vita degli ultraricchi e la dissonanza cognitiva che l’essere ultraricchi comporta, la finanza contemporanea, la città stessa sono finzioni che si accumulano per poi, la trama è infranta, scheggiata, crollare. Il successo del non marito di Vincent, Jonathan Alkaitis, è una costruzione narrativa. Bastava leggere tra numeri e discorsi motivazionali per scoprirlo: quei miliardi, quelle strategie di investimento da late capitalism erano un falso, anche banale, non complesso. Alkaitis è una sorta di Bernie Madoff. A capo di un classico schema Ponzi. Per lui “la musica si è fermata” e il prezzo della realtà verrà pagato dai suoi investitori, con una cella in una prigione federale e da Vincent.

… nell’era dei soldi le capitava spesso di leggere una notizia e di essere distratta dal suo contrario: si immaginava una realtà sostitutiva in cui non c’era la guerra in Iraq, per esempio; un’altra in cui la terrificante influenza suina della Georgia non era stata prontamente circoscritta; un’altra ancora in cui tale influenza era esplosa ina una pandemia inarrestabile e la civiltà era crollata: una variante di realtà in cui la Corea del Nord non aveva fatto lanci di prova di missili, in cui gli attacchi terroristici a Londra non avevano avuto luogo, in cui il primo ministro di Israele non ava avuto un ictus.

Finita l’era dei soldi Vincent si allontana da quella fase, dalla città. Torna a una serie di lavori manuali, quel tipo di lavori che fanno gli artisti e le attrici per finanziare sogni ed arte o gli individui in libertà vigilata o i poveri. È in fuga, una a tratti e soste, in risparmio esistenziale, un esilio molto simile a quello di Edwin St. John St. Andrew. Vincent fa brevi filmati con il cellulare, si imbarca su una nave, lì, con nessuno che la fermi, il mare in tempesta, girerà il suo ultimo momento di realtà. Schegge della sua esistenza però persistono. La storia di Vincent, il suo spettro resistente, ritorna. Fa parte dell’anomalia. L’occhio della scrittrice si posa ed elabora: navi e mare, epidemie e rinascita, artisti da giovani ed etica dell’azione

Sea of Plenitude

“I mean, for all we know,” the driver was saying, “there’s a universe where your book is real, i mean nonfictional!”

“I hope not,” Olive said. She could only keep her eyes halfopen, so the lights in her field of vision were streaked into vertical spikes, the dashboard, the tail lights, the reflections off the back of the truck.

“So your book,” the driver said, “it’s about a pandemic?”

“Yes. A scientifically implausible flu.”

Il reboot è completo, la comprensione che sia stato un reboot aumenta con il passare dei capitoli di Sea of Tranquility. Una scrittrice del 2203 è in tour sul pianeta Terra. Porta in giro il suo romanzo, un buon romanzo e un promettente best seller, un catastrofico, un pandemico. Ha intercettato qualcosa del sentire di lettrici e lettori, il lavoro sul senso della fine è ancora in corso per quanto sembri che il pericolo per l’Umanità sia stato ancora una volta scansato. Duecento anni nel futuro ci sono colonie sulla Luna e altri pianeti del Sistema solare. Altre ancora sono immaginate, previste, le sfide dell’ingegneria sono state superate, la specie ha lasciato il pianeta, adesso è una specie multiplanetaria, forse abbiamo superato il Grande Filtro, l’ansia da estinzione eppure non è ridotta, rimane un tema, se ne discute alle presentazioni, il rischio esistenziale è un motore narrativo ma non basta, deve rimanere sullo sfondo come qualunque descrizione fantascientifica. Non serve, non è quel romanzo, non è quel flusso narrativo e letterario.

Ancora duecento anni in avanti, altro futuro, altri pericoli. I protagonisti del 2400 non possono non estrarre una teoria per la presenza dell’anomalia, fasci di dati in voci e musica: a glitch in the Matrix, stanno vivendo in una simulazione. Su Titano umani prosperano, periodiche epidemie colpiscono ma è una qualche simulazione benevola, forse la teoria della simulazione è uno scenario benevolo in generale: una forma di plenitude secondo l’esposizione di Thomas Moynihan. La verità sulla simulation hypothesis è irrilevante, un romanzo è una simulazione, lettura e scrittura sono due attività possibili, essenziali, nell’attività olografica del cervello. Insieme alla teoria della simulazione, un tema e argomento che ritorna, c’è una, forse più di una, macchina del tempo. Serve, sembra un sovraccarico nella trama. Sembra un altro viaggio del tempo, stranamente diverso dal trope classico e non può non essere così. Nell’Antropocene la catastrofe è equamente divisa nel flusso del Tempo, c’è una guerra in corso, ad alta come in Tenet o Dead Astronauts di Jeff VanderMeer, o a bassa intensità come in questa saga o ne Le prime quindici vite di Harry August di Catherine Webb. Il Time Institute sembra detenere il monopolio dell’uso della tecnologia. I suoi membri sembrano impegnati in due missioni principali: analizzare dati e reperti, impedire crimini temporali. Questa organizzazione di studiosi-burocrati, impegnati nella lettura continua e indefessa del passato, è fondamentalmente concentrata sulla propria sopravvivenza: l’unico crimine temporale perseguito è quello contro l’esistenza del Time Institute stesso. Ci sono dei ribelli a questo sistema e l’autrice mostra la resistenza, non organizzata, spontanea, da imperativo morale: essere in tempo, diventare anomalia, salvare una vita. Forse, così dovrebbe essere, Emily St. John Mandel, in svolgimento e dialoghi, sta elaborando, suggerendo, cosa è il romanzo in quest’epoca concludendo in verticalità aumentata i dialoghi svolti qualche capitolo prima, duecento anni prima, in the Last Book Tour on Earth. Il finale risponde a quelle domande per chi sa cosa cercare.

Ecco Emily St. John Mandel. La sua risposta alla domanda “si ritiene una scrittrice di fantascienza” è simile, quasi la stessa in un modo più sottile, sofisticato, non da pioniera, a quella ballardiana. Quella risposta è no. In qualche modo, ne L’hotel di cristallo e in Sea of Tranquility ha scritto pagine che dicono autofiction: il rapporto dell’autrice con gli eventi nel mondo, il suo occhio che coglie segni -navi e mare, epidemie e rinascita, artisti da giovani e responsabilità-, la sua poetica nell’era della Catastrofe. Che romanzo, romanzi, si scrivono mentre lo spazio interno ed esterno continuano a scontrarsi e confondersi ed eventi e particelle sono in un nuovo stato ad Olocene concluso?

Così, questi.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: