Vorremmo che Eva Horn scrivesse su Rakka. Questo desiderio frustrato, la nostra impotenza e insoddisfazione possono rimanere non espresse.
C’è un’alternativa: uscire dallo scantinato e salire sul pick up con i buddies ed eccoci qui. Anche perché è arrivato il momento di abbozzare un’ars poetica antropocenica, e dare a chi lo vuole un tool narratologico concreto.
Partiamo dall’inizio, e mettiamo sotto processo l’umanità, come cultura, come civilizzazione. Dove sono le difese orbitali? I sistemi di allerta avanzata vicino Plutone, le stazioni di rifornimento sulle lune di Giove? Giove e la Luna assorbono meteore e comete da eoni, hanno evitato il peggio. Fanno parte della fortuna rara della Terra. Servivano strutture militari e scientifiche per evitare il cigno grigio di un’invasione aliena, infrastrutture inutili nell’Eerie silence. Cigno grigio perché quello è il colore del rischio immaginabile. Erano una qualche forma di assicurazione, il miliardario che fa costruire il bunker. Quanta energia bruciata, proteine, vite.
Potevamo evitare la catastrofe puntando sull’impossibile che è solo l’assolutamente improbabile, ovvero che qualcuno fornito d’intelligenza – l’arma che serve per uscire dal Rift e da un sistema solare – arrivasse. È un calcolo non umano scommettere su un global catastrophic risk. La bandiera con l’Uomo Vitruviano e scritte in un carattere gotico della decadenza arriva troppo tardi e infatti è in fiamme e a brandelli. Quella di Rakka non è l’Inghilterra vittoriana, l’Europa imperiale del vantaggio delle gatling e del sistema fiscale contro colonizzati e indigeni; noi sapevamo, quindi la colpa è completa. È l’Antropocene idiot, quello che sta succedendo, quello che si svolge in Rakka, è colpa nostra.
Brucia il tempo perduto.
Ogni civiltà tecnologicamente avanzata sa che il territorio non è qualcosa di passivo ‒ il contesto, la cornice di una battaglia, di un’invasione o di un intrico di reti di scambi. Il territorio, colto nella sua essenza strategica e nella sua complessità ecosistemica può tramutarsi in un’arma. Esso è, di fatto, l’arma più potente.
In tale paradigma, è la fusione cyborg di materia organica, strumentazione tecnica ed elettromagnetismo a conferire al Re-Mago e al Prete-Guerriero il potere di manipolare le forze telluriche sopite al cuore del reale.
La “bomba computazionale” ‒ l’enigmatica e ipertrofica espansione del cervello umano ‒ è, con ogni probabilità, ciò che ha consentito alla nostra specie di elaborare il sofisticato apparato che denominiamo “cultura”: un insieme di pratiche, istituzioni e dispositivi, capaci di trascendere l’esistenza naturale, alimentando quella stessa esplosione che le ha dato i natali. Si può forse affermare che gli esseri umani ‒ così come le ipotetiche altre specie intelligenti che popolano l’universo ‒ non siano stati fin da subito creature “naturoculturali”. L’innesto di cultura e natura può anche essere interpretato come un evento tardivo, conseguente allo sviluppo tecnoeconomico; l’effetto primario di un movimento di feedback riflessivo, che dalla cultura torna alla natura e viceversa, in un crescendo infinito.
Per dirla con Clarke: qualsiasi forma di tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia. Nulla sfugge agli incantesimi e ai patti demoniaci mormorati nelle torri e nelle segrete: terra, aria, fuoco, piante, animali. Il sapere tecnomagico è costitutivamente elementale, pratico, manipolativo.
Ciò è valido in ogni caso, in ogni luogo, in ogni tempo e su qualsiasi scala. Lo sapevano gli Assiri, lo sapevano le armate di Cortez e i colonizzatori britannici; lo sanno gli eserciti imperiali di ogni epoca e latitudine; lo sanno le flotte di invasori alieni, placidamente ancorate a pochi anni luce dalla Nube di Hoort.
Lungo il sentiero periglioso della scala di Kardašëv, le distese di pulviscolo, le stelle e i pianeti stessi si trasformano in dispositivi da battaglia secondari. Macchine mortali che possono essere rivolte contro i loro stessi abitanti.
Camminando per alcune strade di Johannesburg porzioni di skyline parlano di grandi banche, chilometri quadrati di uffici, la possibilità di essere New York e Hong Kong ma dell’entroterra. Hub di gestione delle ricchezze minerarie, surplus di energia che permette studi d’architettura, di avvocati, grattacieli. E quei palazzi sono in realtà vuoti o occupati, squat al posto di open space da cui altri minatori hanno estratto ogni oncia di rame. Condomini evacuati, abitanti e lavoratori bianchi, di stirpe tedesca e olandese e inglese, migrati verso la costa e zone suburbane simili a fortezze. Sembra che Blomkamp viva ancora lì, in uno di quei grattacieli.
Blomkamp, la promessa mancata di Hollywood, avrebbe dovuto girare il prossimo Alien ma Ridley Scott ha detto no. Fibre ottiche, armi da fuoco sono arredamento. Da una finestra lui può guardare il lento degradarsi della struttura della società, la catena degli errori, dal Transvaal, le guerre dell’uomo bianco, lampi e suono di armi automatiche dalla periferia, singoli colpi di arma da fuoco nel sentiero turistico quando cala la notte, la truffa secolare del tribalismo e del razzismo. Blomkamp è rimasto, e guarda il futuro: il vero nemico sta arrivando.

Ne La guerra dei mondi di H.G. Welles l’ “erba rossa” plasma l’atmosfera terrestre affinché gli alieni possano, un giorno, abbandonare i loro gusci metallici. Nella Trilogia del passato della Terra di Cixin Liu i “sofoni” manipolano le microparticelle e la “goccia” sigilla il campo elettromagnetico del sole. In Rakka, i Klum emettono metano nell’atmosfera, bruciano le foreste e prosciugano le acque, accelerando i processi di feedback positivo alla base del riscaldamento globale.
Ma il territorio, il campo di battaglia, è anche un paesaggio mentale, un mindscape, o una noosfera. La guerra si estende fin dentro la mente del nemico. Una pioggia di teste mozzate che piomba tra le mura di una città fortificata durante un assedio; l’urlo disumano degli “stalinorgel”; il boato assordante dei cannoni termici montati sui tripodi da battaglia; il caos quantistico scatenato dai sofoni trisolariani. E nella guerra tra i Klum e la specie umana, il controllo mentale, gli stermini di massa, i politici asserviti e grottescamente sfigurati, lo sradicamento della storia e della cultura di un’intera civiltà planetaria.
La settima estinzione di massa vede come sua principale vittima la specie umana. Il teschio privo di valore di un primate, sul quale transita per l’ultima volta la luce verde di uno scanner, viene lasciato cadere nelle fosse comuni. Le sue orbite sono buie e vuote come lo spazio profondo.
Dopotutto, Homo sapiens non ha neppure raggiunto il primo gradino della scala.
I Klum sono crudeli. C’è la storia della spersonalizzazione, il drive primario dell’eliminazionismo: per uccidere, e uccidere in gran numero, un gruppo deve essere convinto che il gruppo obiettivo non sia umano, cosciente, capace di sentimenti e pensiero, altro. Questa storia è forse vera, forse una fiction. Forse era vera. I Tutsi non erano umani ma scarafaggi. Scarafaggi si muovono, senza alcuna opposizione, sui barattoli aperti nel rifugio sotterraneo di Rakka. I Klum sono terribili eppure non fanno niente che il Sapiens non abbia già fatto, sterminare, mettere in fila, schiavizzare. Creare montagne di teschi.

I rettiliani, i Klum, non hanno alcuna assoluta supremazia tecnologica. Non sono ascendent gods in qualche singolarità tecnologica. Armi a energia, limitata supremazia aerea, naniti adattivi, nient’altro. Il sistema limbico, i neurotrasmettitori dicono di combattere, il gene dell’estinzione non è ancora attivato come ne Il Mondo sommerso di Ballard. Il cervello del Sapiens riconosce a livello istintivo che abbiamo ancora una “fighting chance”. Bossoli possono essere ricaricati, scarafaggi possono fornire proteine, i rettiliani sanguinano e muoiono.
Non abbiamo trovato un solo paper di critica su Rakka e Antropocene. Ve ne sono su film e romanzi sci-fi molto minori, di nicchia ma non su Rakka. Forse perché è una condanna senza appello a un certo mindset.
Fatto: i rettili bipedi hanno dei poteri psionici. Riescono a immobilizzare le vittime umane, ne controllano la volontà. Hackerano la mente umana. Non c’è alcuna difesa possibile se non un gadget. Qualcosa come il freezing della vittima di stupro, del ragazzo circondato dai bulli. I rettili usano un meccanismo di sopravvivenza del Sapiens per distruggere i Sapiens.
Non una vera speculazione: la mente umana è hackerabile, a un certo livello, già adesso. Si può hackerare una massa, targhettizzarla, farle perdere inibizioni, un certo livello di autopreservazione. Far crollare fiction e immetterne altre con alcuni limiti di svolgimento come in Inception, esattamente come Inception. Inception parla di questo, della permeabilità narrativa delle strutture cognitive umane. Quando Harari dice che la mente umana sarà hackerabile sta dicendo che lo è già adesso. La tecnica è antichissima, la capacità tecnologica, necessaria per passare il divide tra idea e realtà, è in miglioramento.
La megastruttura causale di Bratton è in freezing di fronte all’Antropocene. Un suo antico simbolo primordiale è coperto di corpi umani, alcuni gridano e piangono ed è troppo tardi.
I politici hanno tradito, racconta la voce. Hanno permesso loro l’invasione? Gli era stato promesso un mondo nuovo, un posto sull’Arca? Erano in freezing, troppo occupati su temi bagatellari? Un virus ideologico antiumano ha contagiato i più ricettivi? Intellettuali che amano l’umanità ma non l’uomo sono stati la quinta colonna, traditori di specie, come in Cixin Liu? Umani d’affari pensavano di posizionarsi per raccogliere le opportunità del “sangue nell’acqua”, del “sangue nelle strade”? Forse i traditori stavano già elaborando una fake alien invasion. Non per unire il mondo ma per ripianare il debito mondiale, un reboot con a modello quello avvenuto dopo la Seconda guerra mondiale.
I rettiliani vengono proprio dalla mente cospirazionista. Usciti dai loro harem nascosti, proseguono quello che i loro pupazzi umani stavano facendo ma non bene, non abbastanza velocemente: bruciare le foreste, sterilizzare la cultura umana, trasformare la terra in quello che è, ovvero “l’unico pianeta alieno”. Qual è la storia? Quello che fanno i Klum lo hanno già fatto gli umani ad altri umani, umani ad altri non umani. Sono troppo umani, forse neanche extraterrestri ma esseri extradimensionali, usciti da una frattura della realtà, da una faglia parallela. Il viaggio interstellare è impossibile o troppo costoso, un’invasione è senza senso, irragionevole. I Klum non sono/sembrano dei superpredatori, una possibilità dal paradosso di Fermi. I politici non usano le armi nucleari, i politici hanno tradito. Forse hanno avuto quello che volevano. I Klum sono pochi e fragili, la loro superiorità aerea non è spiegabile. Non c’è speranza nell’apocalisse autoinflitta.
Una giovane donna, con un vest carico di esplosivo al plastico. Non ci saranno murales come a Gaza per lei. Non c’è tempo, non c’è la manodopera, sono pochi passi verso l’ultimo stage del collasso. Età fertile, bellissima. Non doveva essere messa in quella posizione, nessuno dovrebbe, ma è lei che è lì, ha scelto, è stata scelta dal regista come summa della tragedia per quello che appare e quello che è: donna, bella, fertile. Per salvare l’umanità è il momento dei comportamenti antiumani. Non si doveva arrivare a questo, ma ecco qui.
La strategia della disperazione, non spalle al muro ma dentro, inglobati, dentro un muro.
Sono finiti i manipolabili; l’un per cento della popolazione che è psicopatica, ottimi macellai, buoni guerrieri, l’avanguardia della pulizia etnica in tempo di guerra sporca e gli abitatori delle galere in tempo di pace, sono adesso “utili”.
In The Dark Forest (La materia del cosmo, Trilogia del passato della Terra vol. II), l’ “impenetrabile” Luo Ji afferma che nella “foresta oscura” dell’universo ‒ nella quale le civiltà spaziali si aggirano come altrettante prede e cacciatori ‒ non è mai possibile stabilire quali specie siano “benevole” e quali “malevole”. Ciò a causa di un semplice fattore ambientale, fondamentale tanto per la sociologia cosmica, quanto per la teoria degli xeno-giochi: la distanza. È la distanza (astronomica, tecnologica e di specie) a produrre quella che Luo Ji battezza la “catena del sospetto”, una serie paranoica di proposizioni che conducono, inevitabilmente, alla rovina del giocatore più debole.
Ciò, tuttavia, non è vero. È la narrazione stessa a contraddire Luo Ji. Si tratta di un segreto ‒ stiamo sparpagliando ai quattro venti un segreto, una formuletta magica custodita all’interno di un’altra formuletta magica.
Luo Ji, il solo, vero wallfacer (impenetrabile), soffre di un disturbo psichico che lo induce ad alienarsi dalla realtà, a costruirsi una compagna ideale e a vivere con essa esperienze illusorie. Quando si reca da un terapeuta in cerca di aiuto, questo gli dice che non c’è nulla che non va nella sua mente: ha solo un’immaginazione troppo vivida, troppo potente. Inoltre, è sempre meglio aver amato un’illusione, che non aver amato mai.
Tutti gli altri impenetrabili, nessuno escluso ‒ nonostante si tratti dei più grandi futurologi e strateghi militari della loro epoca ‒ falliscono miseramente. Questo perché ciascuno di essi è perfettamente in grado di lavorare, al massimo delle proprie possibilità, con quel che ha a sua disposizione. Ma solo Luo Ji, il pazzo, il buono a nulla, il Tiranno della Spada, è in grado di operare a livello magico, ossia di far uso di ciò che non ha.
C’è poi un ulteriore strato, un nucleo più profondo, più contorto e magmatico ‒ qualcosa che ha che fare con l’amore per le illusioni e con l’illusione dell’amore. Ma, purtroppo, non siamo in grado di coglierlo qui. Non ancora. Lo stesso si può dire dell’angelo che appare in Rakka e dei poteri di Amir, il cyborg rinvenuto da una pattuglia tra le cavie sperimentali dei Klum.
Nella visione di Amir, il guerrigliero terrestre cattura un rettile alieno, lo solleva a forza da terra e fa segno ai propri compagni di staccargli la testa col machete. Nei minuti precedenti, abbiamo visto la creatura scappare, tentare di mettersi in salvo con ogni mezzo. Abbiamo visto i Klum accendere roghi, nel corso dei quali esseri umani sono stati arsi vivi, tra le maledizioni e le invettive degli alieni. Uno di essi ruggisce all’indirizzo di uno scheletro carbonizzato.
Il regista non ci fornisce alcuna indicazione, né di tempo, né di luogo. Ciò significa che non è possibile stabilire l’ordine degli eventi messi in scena.
È probabile che la visione di Amir abbia lo scopo di mostrare, tra le righe, l’impatto tra due civiltà brutali, entrambe (paradossalmente) condannate al genocidio.
Nel 1974, la primatologa e attivista Jane Goodhall descrisse le prime avvisaglie e gli sviluppi di un violento conflitto tra due tribù di scimpanzè. Tale evento è noto come “Guerra degli scimpanzè del Gombe” e si protrasse fino al 1978. Fu il primo conflitto tra non umani di vaste proporzioni registrato nella storia della biologia occidentale.
Goodhall, allora appena quarantenne e priva di formazione accademica, rimase così turbata dalla brutalità delle schermaglie, da sognare, per diverse notti di fila, gli eventi osservati nel corso del giorno.
Gli scimpanzè dei due schieramenti, in precedenza parte di una sola, grande comunità, avevano dato inizio a una guerra fratricida, nel corso della quale fu dispiegato un gran numero di armi e tattiche di guerriglia psicologica ‒ dalle rocce ai bastoni, dagli artigli alle zanne, dallo stupro al rapimento.
Goodhall ricorda di aver assistito all’uccisione, da parte di un giovane esemplare, di un anziano guerriero, con il quale aveva trascorso gran parte dell’infanzia ‒ in una sorta di rapporto di affetto e ammirazione reciproci.
Tuttavia, è sempre Goodhall a riconoscere che, sebbene i semi del male e della distruzione siano stati piantati nelle grandi scimmie e nella nostra stessa specie circa sei o sette milioni di anni fa, l’unico primate in grado di compiere il “vero male” è proprio l’essere umano. Homo sapiens è il solo animale in grado di violare, scientemente, un codice di condotta; di sopprimere i propri simili e i membri di altre specie senza batter ciglio; di negare ogni dignità all’esistenza umana e alla vita stessa.
La guerra tra Klum e umani risponde al medesimo paradigma della “guerra” del Gombe, pur essendo a sua volta amplificato, più e più volte, dalle tecnologie fornite dallo sviluppo planetario ed extra-planetario.
Ma il destino non è scritto nei geni ‒ come dimostra il carattere naturoculturale di ogni civiltà. La precognizione, il dono ‒ o, forse, la maledizione ‒ di Amir è esattamente all’opposto del potere di visualizzazione di Luo Ji. La mente di Amir è stata violata, corrotta e distorta, condannata a non poter mai vedere null’altro che l’inevitabile fine. Quella di Luo Ji ha violato l’universo stesso, riuscendo a strappare alla “foresta oscura” un frammento di codice, e al futuro una scheggia di possibilità.
20.000 anni nel futuro. Il viaggio interstellare non è più possibile.
Società tecnologicamente avanzate accolgono con interesse e curiosità l’emersione, in numero sempre maggiore, di psionici tra la popolazione umana.
Al contrario le società primitive, bloccate in un medioevo con limitate tecnologie avanzate, tendono a eliminare la popolazione umana psionica, fino a quasi estirparla.
Le prime, in gran numero, collasseranno.
Il trope “Utah Team”. Il prossimo decennio in una Moldavia dove un colpo di stato ha dato l’ultimo scossone a un sistema al collasso. Unità corazzate e spec ops vengono inviate dal governo americano a fare qualcosa, non pacificare o evacuare la popolazione civile ma a tappare il buco nella diga della civiltà umana. Che la presenza di uomini, carri armati, dia peso, fermi il collasso entro i confini di una regione. Qualcosa accade; spettri emergono dalle rovine. Il team Utah entra in un palazzo devastato e viene eliminato. Rimane un sopravvissuto, nascosto sotto una vecchia vasca da bagno in ghisa. Nel primo vero contatto con un nemico non gestibile perché non pensato o immaginato possibile l’intero team Utah muore. Non ci sono abbastanza vecchie vasche da bagno. Il percentile dell’umano che incontra un nemico non elaborato, nella nebbia di guerra da first contact, aumenta.
In Rakka milioni di persone, probabilmente miliardi, rientrano nel body count. Dopo c’è un assestamento. Deve essere il tempo di cui parla Ward-Perkins nella Gallia invasa: perdite, perdite catastrofiche, la normalità del cittadino romano imperiale che scompare, la speranza di soccorso da parte dell’autorità centrale svanisce, tentativi di compromesso, poi adattamento. In quest’ultima fase, il cittadino romano torna a imparare a combattere, con sacrifici, ancora perdite, per tentativi, la fortuna nel rischio vita in un gruppo e una moltitudine. Il risultato di scarto di questo tipo di adattamento è il survivor bias.
Non hanno scelto a caso.
C’è un comparatismo distopico che serve.
Da un lato la Georgia di The Walking Dead, con le microcomunità sopravviventi a replicare il ruralismo coloniale contro la wilderness zombie. Dall’altro il Texas dell’ultima estinzione umana in Rakka, con il turbocapitalismo alieno che produce l’Antropocene climatico nello scenario peggiore possibile. La pericolosità addomesticata dei non-morti e l’aggressione xenonazista dei Klum, il survivalismo epico delle armate Brancaleone attorno ad Atlanta e le milizie senza speranza in qualche Bengasi texana.
Sono accessori narrativi, distrazioni: la comune autarchica alla zio Tom e il mondo-discarica alla Dickens non aggiungono niente al calderone immaginaginifico, declinano e basta. Il vero motore narratologico dei due (dis)topoi è la terraformazione, nel primo caso quella dei pionieri onanisti, che strappano particole di vecchio mondo al nuovo mondo inselvatichito, nel secondo quella dei conquistadores sado-masochisti che contaminano di naniti e metano il globo. Tra i due modelli operazionali un unico mindscape: la Terra è l’arazzo narrativo.
Nel paesaggio di paesaggi americani c’è inscritto un prontuario “geoporn”, un pantone di terreni e vedute che non sono solo setting ma sintassi. La Georgia di Deliverance di Dickey e il Texas di Blood Meridian di McCarthy. Non panorami di sfondo ma motori di storie. E, come l’America immaginata è il collante che permette di unire due paesaggi antitetici in un unico paesaggio simbolico, che è matrice prima di ogni azione umana cioè narrativa, anche qui la terraformazione, a dispetto delle apparenze fisiche e funzionali, è la stessa, cioè punto di partenza e punto di arrivo, tapestry di accadimenti muscolari e morali, alfa e omega che permette di dare un ordine provvisorio al frammentismo narrativo di 11 stagioni di serie TV o di 22 minuti di corto.
Ma anche terraformazione, appunto, cioè matrice in movimento, arazzo autogenerativo, paesaggio performativo: cosmogonia.
Abbastanza chiaro che nel subbuglio di mitopoiesi antropoceniche dell’ultimo decennio il disorientamento, il perturbante, la lacuna, trovano una risposta ultima (ultima ratio narratologica, ultima spiaggia emotiva, ultima chance della specie) nel cosmogonizzare il racconto con qualche déjà vu.
In The Walking Dead la provincia americana profonda in bilico tra Arcadia e Ade, ma pur sempre rassicurante come un potenziale on the road liberatorio, escapista, ipostatizzato nel crocevia asfaltato ma comunque circondato da alberi infestati e soffocati dal kudzu; in Rakka il deserto del braccio di ferro tra Cristo e Satana e quello ormai azzerato di Cyclonopedia, dove la prova solare-demoniaca si è già compiuta, paesaggio ontologico ipostatizzato da colate di fango giallo tossico al confine con postremi residui di civiltà.
Un cul-de-sac narrativo in entrambi i casi, un depotenziamento dell’energia cinetica del land/mind/word-scape, e in questo senso, cosmologicamente, immaginativamente parlando, nessuna via d’uscita utile, nessun sistema inferenziale da riusare. Forse, anche, un autosabotaggio del dopo.
Però il Texas, e qui c’è qualcosa che oscilla creando una certa vertigine tra il cheesy cinematografico e la metafora petroleosa alla Negarestani. I pozzi che spruzzano su carcasse di bestiame come paludi di catrame quaternarie, gli sversamenti nel Golfo del Messico come per l’arrivo di un magalodonte informatico, le lezioni di tenebra di Herzog che sporca la guerra in Iraq con un’estenuazione estetica che salva il cinema ma non il mondo. Il Texas di Rakka sono soprattutto i naniti vischiosi, presentati come una marea nera bulicante lungo una spiaggia bretone (amplesso tra Amoco Cadiz ed Erika), i cormorani impastati e i volontari che ripuliscono.
Blomkamp ha una grammatica dell’immaginario molto ristretta, ripetitiva, ma tra petrolio e napalm intercetta e rovescia un’iconografia anni Settanta e Ottanta per lanciarla inequivocabilmente nell’Antropocene. I Klum sono solo il vettore, perché quello che distrugge c’è già nella tossicità ricorrente di alcune ere geologiche terrestri.
Anyway.
La guerra è perduta, c’è un macellaio prima di un infernale punto Omega, la vendetta di Gaia è andata fuori controllo, i demoni forse evocati impazzano; i combattenti usano Galil, AK, carabine modificate in armi automatiche, ricaricano bossoli, il cibo in scatola è devastato dall’umidità. Una guerriglia è vincente solo se una popolazione ancora esiste, il tessuto narrativo e biologico ancora regge.
Non è il caso di Rakka dove ogni threshold – militare, climatico, dimensionale – è già stato superato. Eppure. Qualcosa salva Hitler da un attentato o un incidente aereo; i fascisti inglesi vengono sconfitti nelle strade prima che sia troppo tardi. “Perché i regnanti malvagi non muoiono?” si chiedeva un giovane Hume. Mentre tutto sembra perduto, lo svantaggio dello sviluppo di altri mammiferi combattenti è immenso, il tempo è finito, il regno dell’Uomo piange inchiodato sulla Torre Eiffel, qualcosa accade. Altre forze non vogliono che l’umanità finisca. La fortuna della specie che viene a mancare in Cixin Liu continua, ritorna, coriacea, inaspettata.
Senza alcuna voce è un Deus vult, in una frequenza certamente non umana oppure estremamente umana. Un’altra specie forse, una proiezione, il livello di Co2, troppe parti per milione, che instupidisce e nella stupidità, quella che elimina il pensiero complesso, fa continuare a combattere. La fuga di Amir, l’aura del sergente Hines in Firebase, tutta la vita di Luo Ji, la taqiyya che salva dall’estinzione di Zhang Beihai, un angelo appare in Rakka.
Le montagne di teschi rimangono un orribile grave narratologico.

CK MM AV