Appena oltre la linea dell’orizzonte degli eventi, la catena di errori e catastrofi. Per la rivelazione nell’apocalisse dovranno passare anni.
Prima gli incidenti nucleari, le guerre, poi un virus che stermina l’umanità risparmiando bambini e ragazzi fino a quindici anni. Non è il Supernova Era di Cixin Liu, ma assomiglia molto a certe atmosfere di Terminus radioso di Volodine. I vegetali, i personaggi bislacchi. Oppure il Calvino delle Fiabe italiane. Ma intanto nessuna preparazione, nessuna assunzione di responsabilità. Le colpe dei padri colpiranno tutti i figli. Nessuno di loro che sappia prendere il testimone della grande macchina produttiva, e i saperi crollano, l’inerzia delle ultime macchine si esaurisce. Allora il mondo entra di nuovo in una fase pre-industriale, le orde di ragazzini declinano in tutti i modi possibili lo scenario de Il signore delle mosche di Golding:
Lui e i suoi coetanei giravano sbandati da un paese all’altro sotto la Trinità di Pigrizia, Spreco e Violenza: botte da orbi, saccheggi, e ogni volta la conta di quelli che perdevano la vita si allungava perché di fucili ne circolavano ancora parecchi. Ma a quell’epoca, lui mica aveva la paura sfottuta della morte che aveva adesso, anzi non ci badava più di tanto: a dieci anni morire non è qualcosa che ti riguardi. (p. 173)
Poi le bande si organizzano, i bambini diventano adulti, si fondano colonie di coltivatori, qualche gruppo nomade di raccoglitori, di “mungitori” di rovine, continua a girovagare nei paesaggi infeltriti, riguadagnati a poco a poco dai vegetali, dalle bestie selvagge.

Il mondo di Apriti, mare!, l’ultimo romanzo di Laura Pariani (La Nave di Teseo, marzo 2021), è qualcosa di molto più complesso di una fragile distopia all’italiana, perché la violenza che rappresenta, la regressione culturale, la vita guidata da superstizione e dominio, non sono nuove nella storia dell’umanità, sono anzi la norma, nel tempo e nello spazio, appena fuori dalla piccola bolla economica, culturale, climatica in cui abbiamo avuto la fortuna di nascere. Un futuro quindi che non è peggiore di tanti scenari del passato umano dal Neolitico in poi, dove le donne erano usate e brutalizzate, i bambini sfruttati e violentati, i popoli tenuti sottomessi nell’ignoranza e nella paura. Le distopie hanno le gambe corte se sono un pre-testo per dire altro, soprattutto si accartocciano su sé stesse se sono un mero packaging narrativo senza profondità antropologica, e senza cuore.
Apriti, mare! è un libro con molto cuore e molto sapere, e lo si capisce dalla cura con cui l’autrice fa worldbuilding, montando un’architettura narrativa in cui il “dopo” non è uno scenario esotico per parlare di qualche paturnia autoriale, ma è un lungo esperimento dell’immaginario per sondare fin nei dettagli il possibile che è incistato nelle patologie del presente.
Laura Pariani lo dice chiaramente nella Noterella alla fine del libro: le carovane di migranti, i bambini messicani in gabbia, “vi ritrovavo l’eco della terribile ‘crociata dei bambini’ che traversò l’Europa nel Medioevo e che si concluse tragicamente sulle rive del Mediterraneo”. A leggere il romanzo l’impressione è quella, dei “paesaggi della paura” raccontati dallo storico Vito Fumagalli, paesaggi di un’Italia alto-medievale dove l’umanità è assediata da una natura ispida, più immaginata che sentita, più naufragata che terribile, mentre calamità e penitenza si confondono, e la macerazione delle carni, tra città decadute e glebe-prigioni, prende il colore più che ovvio del Libro dei Libri, unica boa spirituale e politica nell’oceano della nuova desolazione.
Ma se fosse solo questo, saremmo ancora nella trappola narrativa della distopia, e quello che invece accade in Apriti, mare! è l’insorgenza del fantastico, proprio come lo si incontra debordante nelle letterature volgari, non ignoranza rispetto ai vecchi saperi, ma via di fuga da un destino monocromo, strumento di resistenza, arma. E nel fantastico anche l’ironia, la compassione bonaria, come nel Medioevo così spinto eppure così vero inventato da Monicelli con Brancaleone. Perché la forza del romanzo di Pariani è appunto un non rassegnarsi al genere, è cercare un’autentica invenzione letteraria per dirci che il dopo, il prima e l’adesso si somigliano, che gli scenari si ripetono, sempre.

Nello svolgimento del fantastico la potenza della scrittura. La storia è bella, sempre più poetica, sempre più dolente. La lingua inventata da Pariani è una solida quanto vera macchina del tempo, la funzione narrativa che fa del suo romanzo un autentico romanzo dell’Antropocene. Aprendo il libro a caso, una pagina scelta nello sfogliare frettoloso in libreria, emerge subito una lingua ricca, un lavoro lessicale molto curioso; si potrebbe pensare ecco, una scrittura che “fa voce”. L’esperienza della lettura lungo tutto lo svolgimento nella progressione educativa della lettura un po’ alla volta ci espone a un’esperienza etnografica in cui le parole si spiegano a puntate, le parlate diventano più intelligibili pagina dopo pagina, l’onomastica dei personaggi, la toponomastica dei paesaggi e la stratificazione linguistico-lessicale si fanno carico di ciò che altrimenti andrebbe spiegato con flashback e improbabili ricapitolazioni narrative: il tempo del prima, le trasformazioni del dopo-collasso, le scelte culturali e sociali dei sopravvissuti sono tutte raccontate nella loro lingua. Vicende e azioni stratificano e costruiscono la lingua dei personaggi.
Si potrebbe parlare di pastiche, ma sarebbe banalizzante. Quella che Pariani inventa è una vera e propria koinè alto-italiana, infarcita di latinismi maccheronici, di arcaismi, di solecismi, di francesismi e lombardismi, di neologismi e paraetimologie, di sostrati e superstrati, di relitti fonetici, che chi conosce la filologia romanza ha già incontrato ad esempio in certi testi volgari, e che nel romanzo imita il vettore temporale e culturale che portò il latino parlato alle lingue neolatine. La “neolingua” parlata dai personaggi di Apriti, mare! e che deborda dal virgolettato dei dialoghi per entrare in tutta la prosa, ci regala l’esperienza di un testo gallo-italico come potrebbero scriverlo un Bonvesin de la Riva o un Salimbene de Adam del post-apocalisse.

Il Medioevo, dunque, ma anche l’impressionismo etnografico dei viaggiatori in Italia tra Sette e Ottocento, tra Alpi e Pianura Padana, tra villaggi di stamberghe e comunità depresse, e forse qualcosa anche del Diario della Verna di Dino Campana, quando incontra le genti “primitive” d’Appennino e le guarda con una distanza temporale che ha il sapore dell’abisso. Invece di limitarsi ad affidare questo meccanismo di distanziazione alla rievocazione da parte dei personaggi o alle descrizioni di resti e rovine, Pariani costruisce i livelli temporali della storia attraverso il lessico: il prima è affidato al latino rustico (Sicutèrat, tempòribus, anni-annòrum, seculòrum, lagrimarumvalle) mentre l’adesso del racconto si sfrangia nel sostrato lombardo (bicòca, ranza, balénghi, òmm, giudé maramàn, fabriàn, fasòj), nella toponomastica folk (Colonia Treanime, Colonia Caparello, Malguardato, Passo della Fòrcora, Straregno, Cornodoppio, Monte Sguròne), in un’onomastica campestre e paesana che indica una cesura con tutti i vecchi nomi del mondo di prima (Sanguèta, Spina, Carbunella, Sulénc, Rùzzola, Cancerbero, Domina Giuggiulèna, Froda, Barlànda, Nocca, Aurea, Feròna, Timùrchia), e poi in generale in una messe di regionalismi fonetici, di dialettalismi italianizzati, di idioletti, di famigliarismi e di oraliture che fanno di Apriti, mare! un gioiello di intelligenza linguistica e un parco-giochi per il filologo.
Se insistiamo su questi aspetti è proprio per sottolineare la distanza che c’è tra fare worldbuilding e fare worldpretending, tra lingua come funzione narrativa e voce come narcisismo autoriale. Una lezione più unica che rara di come “temi di genere” solitamente scartati dal romanziere del canone nostrale possano essere trattati con grande consapevolezza letteraria. Assieme a Laura Pugno, Pariani è l’esempio che stavamo cercando da un po’ di tempo per parlare di romanzo dell’Antropocene in Italia.
Chissà se sua sorella era ancora viva… Non che nel mondo post Soffio mortale i legami di sangue contassero realmente. In fondo la parentela non è che un eccesso di disposizioni naturali. (p. 172)
Questa nota di antropologia della parentela ci offre un’ulteriore coordinata per lasciare intuire al lettore la complessità architettonica del romanzo: non solo abbiamo l’eco narrativa dell’opposizione etnologica tra comunità nomadi di caccia e raccolta e comunità stanziali di coltivatori ma, per quanto possa essere un’espressione ossimorica, Laura Pariani costruisce una “antropologia del femminile” che va più lontano dei meccanicismi distopici della Atwood. La dissoluzione della famiglia, la riduzione della donna a puro strumento di procreazione e piacere, è spinta fino all’area perturbante delle minori: in assenza di un padre-padrone protettivo, nella dissoluzione del patriarcato tradizionale, basta la prima mestruazione e già la bambina viene data agli òmm per fare la “crassaputa”.
Con un movimento non scontato, il femminismo intuitivo germoglia già nei piccoli gruppi di “piscinletto”, di “mignonette”, che proprio per sfuggire allo stupro programmato decidono a volte di fuggire, affrontando i vaganti delle terre selvagge, i cani allupati, la morte. Questa consapevolezza retroattiva, questo rivolgere lo sguardo poetico e politico alla “piccinàja”, fa del passato-futuro di Pariani un’altra invenzione solida: l’umanità senza tempo che torna sempre ai suoi stessi peccati di sopruso, la sottomissione storicamente immanente e violenta della donna, l’attenzione alle bambine e ai bambini come soggetto politico, toglie subito il romanzo dalla trita dialettica generazionale (antichi vs moderni, padri vs figli, vecchi vs giovani, dialettica molto spesso traccia di una mera frustrazione autoriale e comunque un déjà vu distopico che ha abbondantemente stancato), per lanciare il racconto in una zona politica nuova, davvero radicale, davvero illustrativa di una rivoluzione possibile, agita e non urlata ai quattro venti. Ma qui la nostra lettura scivola nell’intervista, e cede la parola a Pariani.
* * *
Grendel: La distopia è una “zona” che non si improvvisa, e la nostra impressione è che le declinazioni italiane della distopia, specie se ambientate in Italia, non godano di buon salute, siano gracili per mancanza di profondità narrativa, poco più che uno scenario improvvisato per dire qualcos’altro a soggetto. Che effetto ti fa la parola distopia? Apriti, mare! è un romanzo “distopico”?
Laura Pariani: Ho concepito questo romanzo come una voragine in cui far precipitare una molteplicità di voci, personaggi e narrazioni (fiabesca, popolare, picaresca, distopica…).Potrei dirti che in fondo mi sono fatta guidare dalla Mappa Mundi davanti alla quale fantastica la piccola Aurea: un mondo che a un certo punto termina, per cui il mare precipita nel vuoto:
Si cadrebbe senza mai cessare di cadere, si continuerebbe a cadere per ore, giorni, senza sosta, si morirebbe e si continuerebbe a cadere da morti…
Ogni storia ha una “forma” che riflette l’idea di universo, la cosmologia che sta nella mente dei protagonisti.
L’idea di ambientare la storia in un futuro prossimo – dove il modo di vivere occidentale come lo conosciamo oggi è crollato e non c’è più traccia del cosiddetto Patto Sociale – non è nuova per me. Mi era già successo con Di ferro e d’acciaio, che uscì da NNE nel 2018, per raccontare una società appena dietro l’angolo: la cultura guardata con sospetto, la svalutazione dei sentimenti, la perdita della memoria, il controllo delle menti. Così come per Di ferro e d’acciaio, anche per Apriti, mare! la decisione di mettere la vicenda in un tempo “futuro” non è nata da chissà quale fantasia apocalittica, ma dalla necessità di porre la storia dello “sciame” in una sorta di campo aperto, non protetto, dove i pensieri e i “credo” potessero fronteggiarsi.

G: Il mondo del tuo romanzo è costruito con una grande attenzione per i dettagli, soprattutto è coerente nel tradurre il passato prima dell’Incidente nell’adesso-qui del racconto, con indizi, reperti, tracce che stimolano un sentimento di compassione per l’umanità attuale, dal bicchiere con gatto Silvestro alla reliquia digitale. Ma poi c’è la toponomastica, la lingua, il corpus di testi e leggende che alimentano l’immaginario dei protagonisti, dalla Bibbia a Salgari. Un grosso lavoro di worldbuilding, insomma. Come hai costruito questo immaginario? Quali libri ti hanno accompagnato? Quali film?
LP: Nella costruzione di un mondo – forse il momento più entusiasmante dell’elaborazione di un romanzo – confluiscono tante ricerche e le letture più diverse. Ho, per esempio, riflettuto parecchio su Il signore delle mosche (1952) di William Golding: i suoi bambini isolati, senza alcun adulto che impartisca loro delle regole educative, liberi da ogni freno inibitore, regrediscono verso una barbarie sanguinaria. Mi sono chiesta allora cosa sarebbe successo se non fossero capitati su una lussureggiante isola in cui non esistevano problemi di cibo e acqua, ma si fossero trovati in un ambiente di scarsità e disastri; e soprattutto che adulti sarebbero diventati. Ho cominciato con l’immaginare la “scomparsa” dei nomi e dei cognomi, etichette imposte da una società che non poteva rinascere; e poi ho ipotizzato una regressione progressiva (come perdita di individualità e di memoria) e la nascita di qualche leader. Poco a poco il “nuovo” mondo è venuto a me…
Ma per mettere in moto una storia che racconta un viaggio, avevo innanzitutto bisogno di luoghi. È come se per me la Musa più importante fosse Urania: ho bisogno di conoscere bene uno spazio, per raccontarlo. E allora ecco i luoghi del romanzo: la Trista è una delle tante cave di ghiaia della valle del Ticino; il Presidio è un vecchio lanificio Lanerossi abbandonato; l’eremo della santerella è una chiesetta sulla Maiella; il paese natale di Numerocinque sta nei monti della provincia di Rieti; la Casa della Sapienza l’ho immaginata nel centro storico di Orciano di Pesaro; l’abbazia dove si rifugia lo sciame nel capitolo centrale l’ho trovata in un valloncello nei pressi di Fiuminata, nelle Marche; le spiagge di Renarossa le ho viste sullo stretto di Messina.

Fotografie, mappe, nonché ricordi personali trasformati in disegni, mi hanno guidata: amo disegnare ambienti e personaggi che racconto. Forse perché ho cominciato negli anni Settanta a lavorare come pittrice, ho sempre “pensato con gli occhi”. Le immagini hanno per me la funzione di aiutarmi nella concentrazione, oltre che di mettere in moto le idee, di stanarle.
Mi sono guardata vari documentari di camminate in molte zone selvagge dell’Appennino. E naturalmente ho pensato a certi film come L’armata Brancaleone di Monicelli e Magnificat di Pupi Avati.
G: La lingua di Apriti, mare! è la vera macchina temporale del romanzo, lo strumento per attivare un perenne movimento di sistole-diastole tra passato e presente narrativo. Ne Il paese delle vocali (Casagrande 2000) vediamo rappresentato un passato che somiglia un po’ al futuro del tuo ultimo romanzo, qui però la parola ha stratificazioni ulteriori, dall’italiano antico a francesismi italianizzati e ovviamente al lombardo, ma c’è anche qualcosa di ironico (e malinconico) che ricorda appunto il Monicelli di Brancaleone. Come racconteresti la lingua di Apriti, mare! ? Per quali canali il Medioevo è entrato nel tuo immaginario?

LP: Libro dopo libro, la ricerca linguistica è per me rimasta una passione costante. La lingua diventa ancora più importante in una storia come questa: in una società nuova sono necessarie parole nuove. Per questo ho condotto, digerito e ravvivato il mondo del “post-Incidente”con la “mia” lingua letteraria. Vista l’età delle protagoniste, immedesimandomi con loro ho cercato di recuperare la visionaria libertà mentale dei bambini quando inventano parole. Sono partita dalla scelta dei nomi: per esempio, Sulénc (alto lombardo: il sentimento di tristezza che ti viene quando sei solo), Sciantanèla (umbro: mulinello di vento, malessere di risvegliarsi con un senso di oppressione al petto), Podegài (ladino: ditale di stoffa per coprire un dito malato), Grìgola (lombardo: briciola), Dòi d’agòst (padano: la festa degli uomini), Ordinotte (toscano: campana al tramonto; ma anche: sederone), e così via…
Riflettendo sull’ignoranza propria dell’infanzia – intesa come quantità di cose che i bambini ancora non conoscono – ho cercato di costruire un mondo in cui le parole avessero un impiego ludico. E ho pensato molto alla ragazzina di un documentario sulla “rotta balcanica”, che per divagare il fratellino stanco gli raccontava storie come una piccola Sherazade; oppure ai bambini di Sarajevo capaci di trasformare le macerie in un mondo fantastico e a quella terribile frase che mi raccontò un regista che li aveva filmati: “Giocavano ‘al cecchino’…”
Poi, costruendo un mondo in cui si scontrano la religione dell’Onnipòssio (il Libro, San Chef, i Cercatori di Penitenza, la lotta alle strìe…) e quella popolare (e femminile) delle fate e delle salvanelle, ho paludato la prima con un rivestimento di latinòrum maccheronico e dato alla seconda un vocabolario magico.
Quanto all’Alto Medioevo, è un’epoca che mi ha sempre molto interessato: il disgregarsi di un grande impero, la nascita di nuove comunità e di nuove lingue, il recupero dell’antica cultura da parte dei monaci, l’iconoclastia, la credenza nella fatalità, il mito del Paese di Cuccagna…
Confesso che nel 1971, appena uscì, lessi con perplessità Il medioevo prossimo venturo di Roberto Vacca. Il libro descriveva uno scenario futuro in cui la società attuale regrediva a un livello pre-tecnologico, con il conseguente dilagare della povertà per cui si instaurava una feroce lotta per la sopravvivenza e tornavano a galla conflitti culturali che sfociavano in guerre di religione. Avevo vent’anni e non accettavo la tesi di quel libro: ritenevo impossibile la fine di un progresso scientifico-tecnologico che mi pareva inarrestabile; e, imbottita di letture marxiste, soprattutto non accettavo l’idea del risorgere dei conflitti religiosi. Oggi – con un virus che manda gambe all’aria l’economia, la navigazione aerea praticamente bloccata, gente che sbandiera teorie antiscientifiche, quotidiani attentati terroristici in nome della propria fede – non ho più le sicurezze di allora… Qualche anno fa, facendo ricerche per un romanzo ambientato nel Paraguay attuale (Che Guevara aveva un gallo, scritto con Nicola Fantini, pubblicato da Sellerio nel 2016), scoprii il caso incredibile di un centinaio di famiglie tedesche della media borghesia, decise a trasferirsi dalla Germania in una località sperduta della foresta paraguayana, al fine di dare ai propri figli un’educazione libera da teorie scientifiche ritenute “insane” (dall’evoluzionismo all’esistenza del sistema solare; dall’Olocausto al riscaldamento globale)… L’idea di un gruppo di ragazzini tedeschi tolti nel 2010 dalla scuola pubblica per poter essere imbottiti dai genitori con idee retrograde “da mentalità medievale” mi fece molta paura: è facile impiantare in giovani cervelli i concetti più balzani, tanto più se si vive nell’isolamento totale e incontrastato. Insomma, l’ipotesi di un possibile medioevo prossimo venturo non mi sembra più campata per aria.

G: Bambini e adolescenti sono gli unici a sopravvivere al contagio, è su di loro che ti concentri, cioè sulla fascia di età più trascurata dalla politica e dalla cultura oggi; i personaggi principali sono sempre bambine, ragazze e donne, da un lato loro e tutti gli “òmm” dall’altro. Il messaggio è chiaro, ma nella Noterella alla fine del libro parli anche dei migranti, di bambine e bambini in gabbia, di pellegrinaggi forzati e crociate desolanti. Che cosa vedi nel futuro politico dei prossimi anni? Scriverne ha senso?
LP: Ho cominciato a pensare a questo libro parecchi anni fa assistendo, attraverso i servizi giornalistici, alle traversate del Mediterraneo compiute dai migranti; mi colpiva soprattutto la storia dei bambini che spesso viaggiavano (e morivano) da soli. Ho scritto le prime versioni del romanzo nel 2018, quando una “carovana” di 7000 migranti traversò i paesi dell’America Centrale, superando monti e deserti, guadando fiumi per evitare i controlli delle autorità locali. I giornali la chiamarono “onda umana”: era composta per la gran parte da giovanissimi e bambini, uniti nella speranza di raggiungere gli Stati Uniti, paese simbolo di una vita ricca e sicura; per ritrovarsi poi braccati e imprigionati in gabbie, dopo essere stati separati dai familiari. Che Apriti, mare! risenta delle tragedie del nostro tempo, prima fra tutte quella dei migranti, è normale perché ogni romanzo è “poroso”, permeabile a ciò che sta intorno a chi scrive. Nella tragedia delle migrazioni contemporanee ho risentito l’eco della terribile “crociata dei bambini” che traversò l’Europa nel Medioevo e che si concluse tragicamente sulle rive del Mediterraneo.
Ho in un certo senso l’impressione che il nostro mondo somigli spaventosamente alla fiaba di Hänsel e Gretel: figli abbandonati da genitori che non sono in grado di costruire per loro un futuro; bambini costretti a mettersi in viaggio a rischio della vita verso terre molto lontane; ragazze attratte dalla promessa di prosperità infinita della casa di marzapane, ma poi destinate a scoprire che ci abita una strega che ha fame di carne nuova. La solitudine dei bambini e la disattenzione (assenza) degli adulti è il grande disastro della nostra società. È follia la convinzione che i problemi dell’educazione siano secondari e non “politici”.
G: Il fantastico, percepito, raccontato, è sempre presente in Apriti, mare!. I tuoi debiti sono elencati nella Noterella, ma nella lista manca tutto l’orizzonte latino-americano, che invece sappiamo centrale nel tuo immaginario. Non parliamo necessariamente di realismo magico, ma insomma, c’è qualcosa che gli assomiglia. Che sapore culturale ha per te il fantastico? Quali sono gli ingredienti che lo rendono forte, efficace? Quale impatto politico ha la letteratura fantastica in una cultura del romanzo come la nostra, ancora ferma alla rappresentazione degli anni di piombo, alle arancine in riva al mare, al disagio della famiglia borghese?
LP: Hai ragione di parlare del fantastico latino-americano: autori come Cortázar, Silvina Ocampo, Borges, Donoso, Maria Luisa Bombal… mi hanno formato e accompagnato nell’immaginare cosa c’è dietro la porta che stiamo attraversando. Ma ci sono anche il fantastico cinese di Yu Hua o Mo Yan, e quello africano di Mia Couto e Ngugi wa Thiong’o, con una visione epica a cui mi sono avvicinata negli ultimi anni.
Sono convinta che frequentare il fantastico non sia assolutamente trascorrere il tempo divagando, ma porsi domande interessanti sulla verità, sul tempo, sull’intelligenza di tutte le forme viventi, sul nostro inconscio, sui simboli… E proprio perché penso che frequentare il fantastico possa portare novità vitali in una letteratura spesso irrigidita in temi ormai triti, io e Nicola Fantini inauguriamo il 20 aprile per la scuola di scrittura di Belleville un corso di “fantastico”, che si intitola Storie meravigliose.
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