DeLillo: Hypertoxic Consciousness Event

Non ha scelto l’Alaska, non è nato per quel tipo di freddo. Da qualche parte in Appalachia un uomo esce dal garage. Chiude con un lucchetto di acciaio temperato, più facile sfondare la saracinesca, qualcosa che richiede tempo e rumore. Ha riflettuto su quel lucchetto che dice c’è qualcosa di prezioso dentro. Una Prius grigia con 95.000 miglia, perfette condizioni, una macchina californiana, il cofano aperto, il serbatoio pieno, la batteria estratta, la tiene coperta con coperte d’emergenza di mylar tenute insieme da strisce di nastro adesivo intessute d’acciaio a nido stretto. L’iniezione elettronica è un problema, la scheda madre compromessa in sé, riflessi d’oro e rosso, gli stessi dei primi lander e satelliti, la luce degli amuleti. Accanto il Land Cruiser, verde, quel verde aveva un nome, la zincatura collassa, semiassi che non cederanno mai. Non sa l’anno di fabbricazione, c’è un prima e un dopo ed è stata fatta prima, per paesi con il cambio manuale, dove i ladri devono sapere usare la frizione se vogliono esserlo. Prima dell’iniezione elettronica, delle spie sul cruscotto, mossa dal gasolio bruciando olio quando ve ne era solo un tipo. Le auto non dicono nulla di lui, Università della Pennsylvania, Price Waters & Cooper, commodities su Chicago, tutto quello che c’è nel sottosuolo dell’Indonesia, quello che si estrae dal Nuovo Galles del Sud esposto all’aria aperta, foto accanto titanici Caterpillar da miniera, lui minuscolo, quello senza tuta da lavoro, i colori degli elmetti stabiliscono i paygrade. Rientra, spranga la porta con qualche pollice d’acciaio. Al centro del salone una stufa a legna, la canna verso i misteri semplici e svelabili del sottotetto, tra il solaio ordinato di casse impermeabili, antiurto, plastica grigia, se vanno bene per i militari andranno anche per lui, milioni di anni al disfacimento, futuri monumenti fossili alla dedizione. L’antitarme sui mobili e colonne portanti la concessione alla chimica moderna. Adesso è un uomo semplice. Ancora due ore di luce, una soltanto per leggere. Il ritiro dei fotoni dettano quando andrà a letto. Il diesel dura otto-dieci mesi se ben stoccato, il conto alla rovescia prima della velocità medievale. Dalla strada non sente arrivare alcun V8 rombare o la storia di un uomo tradito che cerca dei compromessi per non uccidere nelle canzoni folk che tanti amano in questa zona. Lontano dai gangli e dal flusso, le colonne informative che crollano non lo toccheranno. Un’ora per leggere qualcosa dell’ultimo DeLillo.

Ricorda dopo poche righe la sensazione di sonno interiore davanti allo schermo incastonato nel poggiatesta del sedile davanti. Le miglia volate, le miglia da volare, l’altitudine come un numero primo, la velocità come un’ipotesi. Ma ricorda soprattutto la sensazione di annullamento, come se fossero i numeri a leggerti, in un’ipnosi senza durata che solo l’urto nel gomito della hostess o la spinta fastidiosa della vescica riusciva a spezzare. Non era la tecnologia il problema, non era le delega sempre più massiccia della società industriale al trascendente singolare, era qualcosa di annidato nel cervello come un errore di sistema programmato. Qualcosa di molto più antico del bit. Legge una pagina. Qualcosa gli dice basta. Gli viene da pensare che il libro è già tutto lì, in quel volo simulato, nella metafora dell’apnea atmosferica che descrive un cortocircuito ancestrale tra digitale e neuronale, e poco importa che di quel libro se ne sia parlato appiccicandoci sopra parole a caso come “profetico” o “racconto più che romanzo” o “modernità”. Il libro è tutto lì perché l’aereo precipita nel reale, che è fatto di strade impossibili ma che ci si ostina a percorrere con il desiderio. Gli bastano poche righe, mentre la luce va via, per ricordare che l’intera civiltà finale era dentro quell’aereo-bunker, connessa con un esterno invivibile da numeri, mappe stilizzate, simulazioni temporali. E nel frattempo l’inspiegabile biologico: la capacità schizofrenica umana di vivere dentro scene da un matrimonio con l’ordinario, il quotidiano, il prurito a una mano, il freddo della bibita, e l’abitudine a considera il dopo come un continente da raggiungere in poche ore di trasvolata oceanica. Ma l’aereo è caduto, lo schermo ipnotizzante si è spento, i muscoli sbattono adesso contro le ossa.

Cerca, alcuni anni prima; è nel New Jersey. Dopo la caduta, nel nuovo ufficio. Ad angolo, nessuno skyline, un edificio di mattoni rossi e vetro, qualcuno aveva studiato il rosso dei mattoni perché sembrassero riconoscibili come paesaggio della prima rivoluzione industriale. Poteva vedere la I-95, le rampe d’accesso così vicine, qualcuno che non ricorda segnava i tempi di reazione delle forze dell’ordine in una lavagna. Polizia prima sul posto, dai 360 ai 500 secondi per l’EMS, da 7 a 11 per i pompieri, ore per il coroner, minuti per il municipio per ristabilire la circolazione. Niente di macabro, nella divisione rischio esistenziale cercavano gli schemi, la banda del pensiero occupata per un attimo sull’incidente dell’Accord arancione, quanti secondi all’ospedale, possibilità di morte all’impatto. Aveva smesso di viaggiare, il credito alla sensazione di precarietà esaurito. La Winston & Gaimoto un nuovo inizio, assunto come l’adulto nella stanza, un CV di realtà, quella miniera esiste, una nave per le trivellazioni nel post-artico è davvero in costruzione. A capo di ragazzini dalle competenze fumose, che guidavano Harley, un qualche disprezzo per la città, stivali militari, ragazze con master in neurofisiologia del cervello con corpetti antitaglio sotto camicie di flanella, contenti di avere l’autostrada vicina, contente di tornare a dormire in stati con sceriffi e leggi sulle armi rilassate, in campagna. Elaboratori di apocalissi, gestori della paura. Hanno paura dei pub, di essere drogati e violentati nei locali di Manhattan, spendono i bonus in microlingotti di palladio. Braccialetti di sopravvivenza sostituiscono Rolex. Lui studia la fiction del programma presidenziale sulle infrastrutture strategiche. Non capisce da dove vengano i soldi della W&G quindi pensa stia spendendo segmenti dimenticati di bilancio dal dipartimento della Difesa. Hanno un portafoglio con depositi di antivirali nell’Essex, comprano motori d’aereo Rolls Royce che nascondono in hangar vicino discariche di rifiuti radioattivi, trecento milioni di barili di petrolio WTI stoccati in North Dakota. Nell’ultima riunione i ragazzini parlano di zero point, la parola entropia è vietata, resilenza è oltraggio alla neocorteccia, la rete che non può reggere gli ricorda che la produzione di petrolio non può continuare a crescere, contro la legge della fisica, il back-up del capitalismo. Lo stock market continuerebbe anche in caso di guerra atomica, un fungo atomico su Islamabad, un milione di ciechi ustionati esce da Seul, la Borsa di Milano interrompe per due ore le contrattazioni. Basta un solar flare, è già successo; la guerra cibernetica totale, qualcosa di nuovo. I libri che leggono non bastano. La riunione si fa cupa, chi partecipa comincia ad avere fame e sete senza motivo, discutono se il deposito con i trasformatori debba essere sotterraneo, sotto almeno trenta centimetri di terra contro le radiazioni o sotto una immensa gabbia di Faraday, di che metallo la gabbia, chiedere a un esperto in un’università di provincia, uno che stia zitto perché onorato del mistero e della richiesta di consulenza. Chiedete di questo evento di Carrington, scopatevi qualcuno alla Difesa, ditemi della mortalità infantile appena i generatori d’emergenza smettono di funzionare. Quanto sono dentro i russi nella nostra infrastruttura energetica, cosa possono fare i cinesi ai nostri server. Quanti coltelli può alzare al cielo e alla pietra l’indovino etrusco. Quale città cade, se conta essere re, una tempesta è in arrivo. “Possiamo spegnere l’Iran” interviene una ragazza, dice Stuxnet, dice Ucraina orientale, dice siamo stati noi. L’ultima riunione, pensa di aver una nuova forma di sindrome post-traumatica. Poteva reggere un altro po’ di paura ma non con i numeri che non hanno più senso. Capisce qualcosa di Gödel, deve leggere Teilhard de Chardin, da qualche parte cerca pace e risposte come Einstein cercava la prossimità a dio e una qualunque cosa che sembrasse davvero reale. Era stanco di immaginare il modo per distruggere il raccolto di riso della Cina, di scorgere il collasso dall’America da un incidente stradale.

L’unico declino di cui vuoi rimirare le pieghe è il suo, e tutto era rappreso in un’altra immagine di quel piccolo libro che adesso sembra spuntato da un passato abissale: un uomo seduto davanti a un televisore vuoto. Ma non è una metafora, come dicevano i critici letterari che scrivevano avatar di articoli su riviste on line, non è un giudizio morale sui gineprai del progresso. DeLillo in quelle pagine rappresenta un uomo che alla vigilia della fine svela sé stesso come l’antropoide che è sempre stato, un essere multiaccessoriato e al tempo stesso scimmia nuda, un basico aggregato organico autocosciente ma che di quell’autocoscienza raffinatissima, distillata in milioni di anni di evoluzione, non sa che farsene, e preferisce sorseggiare whisky di fronte al white out dello schermo. La lezione è semplice e dura da digerire: siamo inutili a noi stessi perché sganciati dalla filiera genetica, immersi in un non-ambiente in cui ecologia della sopravvivenza e ecologia delle tenebre si toccano in un punto perennemente rimandato. A meno che non si inceppi qualcosa, con un collasso informatico, uno tsunami o una spaccatura di faglia lungo una catena di centrali nucleari, una variante virale molto cattiva, un sasso sputato dal cosmo. Perché l’apocalisse soft, al contrario, è l’addomesticabile per eccellenza, basta avere una poltrona, un televisore e un bicchiere di whisky con l’ultimo ghiaccio che sta fondendo nel freezer. E la lezione, quella semplice e dura, è questa: gli zombie vincono sempre, perché il cortocircuito tra futuro e passato, la presa di coscienza sul fatto che la civiltà è solo una coperta su un nido di serpenti, viene azzerata in qualche parte autoimmune del cervello. Leggere non serve. Scrivere non serve. Si può solo sperare nella fortuna di specie, quella che anche falciando i singoli a milioni si rigenera in qualche parto di emergenza nel sedile posteriore di un’automobile. A pensarli tra trent’anni, con in mezzo qualche brutto scossone della civiltà, con appena qualche milione di morti per ragioni biologiche, meccaniche, ideologiche, i libri sono accessori, non tool, non pacchetti mnemonici, non pillole di fuga. Sono accessori silenziosi come un televisore vuoto, come un bicchiere di whisky, come una poltrona. Servono solo a una cosa: restare. L’alternativa è alzarsi e uscire di casa. Fuori, calcinate dalle concussioni nucleari, svuotate da qualche peste, o abitate come oggi, come sempre, da una falsa normalità, ci sono ancora le prime savane africane, via dagli amplessi borghesi, sospese nel kairos che ci serve.

AV – MM

Don DeLillo, New York City, 1990s

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