La terra non stanca mai (Walt Whitman)
A volte lo spazio di lavoro di uno scrittore è una geografia performativa, un ecosistema di luoghi e cose che parla del suo metodo e che sostiene il suo pensiero nel farsi. Per due volte, alla fine degli anni Novanta, ho incontrato il poeta Kenneth White a casa sua, in Bretagna. La sua idea di Geopoetica sembra oggi più che mai uno strumento adeguato per avvicinare il problema-Antropocene nella sua doppia articolazione scientifica e culturale. Qui sotto le annotazioni verbali/visuali della mia seconda (e ultima) visita all’Atelier Atlantique, pochi giorni dopo essere tornato in Italia.
Di ritorno
Non sei mai sicuro che ti vengano a svegliare. Lo fai da te, scivoli giù dalla cuccetta e nel corridoio sei costretto a guardare la campagna emiliana da Piacenza, diciamo, a Modena. Ed è l’alba, e nei campi c’è quella nebbia bassa, e non riesci a vedere niente se non casali e fabbriche e pioppi ordinati come asparagi. La libera iniziativa, pensi, le imprese a conduzione famigliare… Se vieni dalla Francia ti senti piuttosto depresso, ti vai a lavare la faccia, torni al finestrino a guardare e sai di essere davvero depresso, a meno che dalla Francia tu non abbia portato qualcosa. Questa volta è una serie di appunti per scrivere un pezzo sullo studio di Kenneth White.

Ieri eravamo seduti a parlare nella vecchia stalla di granito rosa a Trébeurden, in Bretagna. Adesso è piena di libri, ma due secoli fa andava bene per i cavalli, e 290 milioni di anni fa, là sotto, il complesso granitico di Ploumanac’h diventava l’intrusione più recente del Massiccio Armoricano. Seduti sul Carbonifero parlavamo di Croce, della “linea ligure”, di Campana e di come l’Italia faccia fatica a parlare di paesaggio e natura, mentre in Francia o in Gran Bretagna lo si fa già da una ventina d’anni. Parlavamo di Benedetto Croce perché, tra le altre cose, aveva criticato i lavori di Roger Caillois, e sia White che io pensavamo che Pierres fosse un buon libro. Certo la cosa non era così semplice, e io mi sentivo un po’ in colpa. Mi sentivo in colpa perché anche White aveva scritto qualcosa di più di un buon libro, e le cose in Italia andavano in modo strano, e io facevo fatica a far passare qui da noi l’energia e la novità del suo lavoro. Non importa, mi diceva, i tempi possono sempre maturare, e anche: un buon lavoro viene sempre fuori. Così abbiamo continuato a parlare di molte cose, come le derive accademiche della cultura e i “sorrisi ironici e le beffe di quelli che restano indietro”.
Fermarsi nello stesso luogo è come stare in treno al mattino presto lungo la tratta Piacenza-Bologna. L’Appennino è laggiù, con le sue arenarie piene di ossigeno, ma tu non ci vai. Vai dove vai di solito, invece, perché essere presenti assiduamente nello stesso luogo significa trasformare i no in forse e i forse in sì. Molti poeti urbani scelgono città compatte come il ferro e ci si installano. È la loro strategia: logorare, logorare. Ma non c’è cultura senza spostamento, e se vuoi fare qualcosa per il tuo paese, per quanto romantico possa sembrare, la prima cosa che devi fare è andartene, ripartire dalla base, magari salendo in Bretagna a vedere l’Atlantico, a respirare aria fredda.
Kenneth White, lui, è andato via dalla Scozia a vent’anni, è sceso a Parigi, a Monaco, poi si è isolato nell’Ardéche e sui Pirenei, e infine ha stabilito una base meno provvisoria proprio in Bretagna. Io avevo già visto il suo “atelier atlantique” un anno fa, e avevo deciso di tornarci per molte ragioni. Volevo rivedere un amico e volevo ricominciare un discorso sul suo lavoro a partire dallo spazio concreto in cui abitava. Il suo studio e suoi oggetti come spazializzazioni del pensiero, pensavo. Una topologia poetica autotrasparente. Niente critica a distanza. Niente di scritto per sentito dire.
E poi c’era qualcosa di più personale, che ha a che fare con tutto quello che desidero per me stesso da qualche tempo. Qualcosa del tipo: “Inalo grandi sorsate di spazio, / l’est e l’ovest sono miei, il nord e il sud sono miei”. Fratello Whitman…
Piano di sotto
Due anni fa ho annotato: “Parti dal terreno. Partire dal terreno è tutto”. Allora ho chiesto a White di cercarmi tra i suoi libri una guida geologica della Bretagna, mi sono seduto al piano di sotto e mentre lui lavorava al piano di sopra ho letto: “… un effondrement ultime se produit à peu près au centre du massif, libérant un volume en forme de veine de montre dissymétrique, où vient cristalliser le troisième et dernier groupe de granites, à grain fin comme le second groupe mais de couleur blanc-gris…”.

Nella Baia di Lannion, lungo la spiaggia e la scogliera di Trébeurden, ci sono ciottoli di granito grigio-bianco a grana fine. Alcuni li ritrovo nell’atelier di White, assieme a un altro centinaio di ciottoli, pietre e frammenti di roccia posati sugli scaffali della grande libreria o sulla sessantina di cartelle e plichi che racchiudono i suoi work in progress. La pietra, dopo la carta, è la presenza più evidente dell’atelier, e White mi dice che ama molto l’incontro di carta e di pietra perché è un ideogramma che gli ricorda che mente e materia non debbono restare mai separate, e che lavorando di idee bisogna sempre partire dalla terra. Mi ripete molte volte la parola “base”, “occorre una base”, e questa base lui la identifica con la geologia più che con ogni altra cosa.
Così nell’atelier ci sono pietre, conchiglie, ossa, e anche oggetti portati dai molti viaggi: i mocassini di caribù dal Labrador, la sacca di paglia dei contadini giapponesi, le pelli di castoro, un totem Ainu, bottiglie vuote di rhum delle Antille. Ma è la nudità della pietra e dell’osso che White considera fondamentale. Tiene in pugno un sasso, mentre parla. Lo guarda, lo gira, mi fa vedere una vena di quarzo, un foro, e aggiunge che quello che lui vuole fare in poesia è qualcosa di equivalente a quel sasso. Una complessità sincronica e diacronica che diventa una forma sola, compatta o fessurata, una coerenza inedita, un’anarchia intesa come ordine superiore, passando magari attraverso il disordine del magma. Ma la cosa va più in là. Tace e guarda il sasso, me lo passa e dice che si tratta di fare ciò che il sasso ha fatto: raccogliere materiale, metterlo in un unico spazio, renderlo dinamico, e dargli forma attraverso una grande energia.
Allora mi ricordo un passaggio dal suo La Route bleue. Tradotto in italiano sarebbe più o meno così: “Sono seduto ad ascoltare il vento nevoso in una baracca che mi ha prestato un antropologo dell’Università di Laval. Di fronte a me, sul tavolo, c’è un esemplare di Cosmos di Humboldt e un frammento di labradorite. Labradorite? Quando la terra in fusione si rassodò, si trasformò in masse minerali come il quarzo, il feldspato, la mica e la hornblenda. La labradorite è una varietà di feldspato. Quando la luce attraversa le sue superfici vetrose sprigiona una moltitudine di riflessi blu. Di tanto in tanto prendo questo frammento di labradorite, e lascio che la luce ci giochi attraverso”.

Ho chiesto a White se questo passaggio rappresentasse qualcosa di più di una pagina di diario, se per caso ci si potesse leggere una traccia del suo metodo di lavoro: gli ingredienti schierati sul tavolo, la pietra, la carta, e l’ascolto. Stai per metterti a scrivere? È così che lavori? L’atelier, come la baracca, è la proiezione del tuo modo di lavorare? Ci guardiamo attorno. Basta osservare le pareti per rendersi conto che i fogli, le fotocopie, le fotografie, le riproduzioni di quadri sono in relazione tra loro. Si potrebbe pensare che esistano sentieri e aree franche, o luoghi in cui sostare, piste, arcipelaghi pieni e vuoti, correnti centrifughe e centripete. Ma no, non ci ha mai pensato, non fa mai autoanalisi lui, anche se sì, è vero, ora che glielo chiedo è certo che ben poco là dentro è messo a caso, che forse un ordine c’è, forse ci sono connessioni, sì, ci sono.
Il giorno dopo mi siedo dove era seduto lui e comincio a cercare quelle connessioni. Passo da solo due ore, prendo appunti, faccio schizzi e fotografie, annoto per una trentina di pagine dettagli insignificanti e significativi. Troppi da scrivere e ripetere qui se non li si è visti. Ma eccone alcuni. Sul tavolino basso: un mappamondo; Les Instructions nautiques et coutiers arabes et portugais des XVe et XVIe siècles, Paris, 1928; Ocèan et terres ocèaniques, volume XIV della Géographie Universelle di Élisée Reclus. Per terra: pile di libri; lettere; carpette colorate fermate dai sassi. Alle pareti: un calligramma cinese; Nihon Ezu (Veduta a volo d’uccello del Giappone) di Kuwagata Keisai; sopra la veduta a volo d’uccello, la riproduzione di un dipinto col salvataggio da parte del capitano Gariel dell’equipaggio della goletta Union; a sinistra della scena marinaresca una scritta a matita sul muro, di pugno di White: “I have forty volumes to write, and forty thousand things to say and do which nobody in the world will say and do for me (Tristram Shandy)”. Questa scritta era seminascosta dalla tenda rossa della grande porta finestra. Fuori vedo il giardino, i rami secchi, gli arbusti curati da Marie-Claude. Attraverso il reticolo vegetale vedo il blu della sera. E nel blu il volo silenzioso e meno blu di una civetta.
Piano di sopra
Il piano di sopra dell’atelier è un sottotetto con pareti spioventi e travi di legno che dividono lo spazio come rami, come le costole del Leviatano. Lo dividono e lo strutturano. La superficie delle pareti è maggiore che al piano di sotto e questo ha permesso a White di appendere una moltitudine di grandi mappe, di disegni e fotografie. Mappe di Messico, Russia, Mongolia, Scozia, Quebec, Labrador. Mappe storiche da Strabone e Erodoto, dei Cimmeri, dei Celto-Germani e degli Sciti. Mappe che hanno in sé qualcosa di molto filosofico, come quella del sistema globale degli oceani e le quattro o cinque varianti dello stretto di Bering e del Passaggio a Nord-Ovest.

Le fotografie non sono meno di cento e i più rappresentati sono gli uccelli. Gli chiedo perché e lui mi risponde che se il piano di sotto è la base, la geologia del pensiero, il piano di sopra è il ramo da cui spiccare il volo poetico: energia alata e tensione dello sguardo. Tensione dello sguardo: sule, gabbiani, gufi, corvi, falchi… Così nel pomeriggio mi mostra alcuni manoscritti. Sono fogli scritti con pennarello nero o stilografica nera su un lato solo. Non usa né macchina da scrivere né computer e per questo ha due tipi di manoscritti. Quando sono in prosa risparmia tempo nella trascrizione incollando al foglio principale dei cartigli ritagliati da altri fogli, così una pagina può risultare dal collage di tre, quattro, cinque manoscritti spesso di epoche diverse. Alcune frasi possono avere vent’anni e attaccarsi a frasi scritte l’altro ieri o cinque minuti fa. Il testo ha allora una sua stratigrafia, un volume reale, e somiglia molto più a un erbario che a un libro. Con la poesia invece è diverso, e White preferisce trascrivere più volte l’intero pezzo, anche una decina di volte se occorre, per pulirlo. Alcune poesie hanno già densità e tono, così certi manoscritti restano tali e quali fino alla trascrizione tipografica, altri sono più lavorati, ma mai tormentati, sempre in una scrittura ariosa e aperta alle infiltrazioni semantiche del bianco.

White fa scorrere le maniche del maglione fin sopra il gomito. Mi passa un altro foglio. Le correzioni sono fatte in tempi diversi e sono leggibili in diacronia, perché l’inchiostro è diverso o perché sono aggiunte a matita. Mi spiega che in genere si deve avvicinare a un risultato e che lo fa in due modi, scrivendo molto più del necessario e correggendo singole parole verso un addensamento dell’immagine e del significato. Così taglia moltissimo rispetto al primo materiale magmatico e affila quello che resta con un processo di indurimento e cristallizzazione del primo livello descrittivo. Inoltre lavora contemporaneamente a tre, quattro manoscritti, passando dall’uno all’altro nella stessa giornata, una giornata che comincia per lui verso le otto del mattino e si conclude alle otto di sera, con una pausa per mangiare e con altre pause per camminare tra le macchie di ginestre dei dintorni o lungo la baia. Per terra ci sono decine di carpette che aspettano.

I manoscritti importanti li tiene però al piano di sotto, dove legge, raccoglie materiale e prende appunti in margine ai libri. Quando deve passare alla scrittura vera e propria porta i plichi al piano di sopra e si siede al tavolo di lavoro. Questione di topologia. Anche per questo davanti al tavolo non ha finestre. Il tetto spiovente si incunea contro il tavolo e crea un cruscotto concentrato per la scrittura, ma con molte vie di uscita, una trentina: la fotografia di un contadino giapponese con cappello di paglia, bastone e zoccoli; la stampa di una balena e una di una foca; le fotocopie di una china cinese e di un’incisione dell’Ottocento che raffigura un pesce a bocca socchiusa; la fotografia dei ramponi dei balenieri delle Orcadi e la cartolina di un vecchio manifesto della Hudson Bay Company; due trascrizioni di pugno di White da Marban l’Eremita e da Amergin (“Mare ricco di pesci…”); una mappa delle tribù del Nord eurasiatico e dell’Artico americano; disegni e fotografie di teste di uccelli e la fotografia di una maschera amerindiana con penne di uccello (il volto meditante e il volo dello spirito, mi spiega White); un cartiglio con la sua grafia che traduce non so che passo di Dante: “Nous dont la patrie est le monde, comme aux poissons la mer”; e molte altre cose appese in quel tratto di parete obliqua sopra il tavolo. E ovviamente il foglio bianco o già scritto, da correggere, da chiosare, come Achab che segue sulla carta del suo spirito infuocato le rotte delle balene, nei mari del mondo.
Ma allora bisognerebbe leggere Moby Dick. O bisognerebbe leggere qualcosa di White, che in Italia viene letto pochissimo.
Pro memoria
Dopo due giorni in Bretagna nell’atelier atlantique e dopo due giorni a scrivere questo pezzo in Appennino, ti rendi conto che scrivere ti piace ancora e che è una gran cosa, anche se non sai più bene per chi lo fai. Per quanto ti riguarda, questa volta è solo un promemoria per i mesi a venire. In realtà hai tutto un quaderno pieno di disegni e di appunti che è a disposizione di chi è d’accordo con quello che hai detto nella prima parte di questo pezzo. Per chi invece non si interessa molto al fatto che uno come te è stato in Bretagna ‘per fare cultura in Italia’, e che là Kenneth White sta lavorando (anche per l’Italia) a uno dei progetti poetici più ambiziosi degli ultimi tempi, possono bastare due ideogrammi che hai raccolto a marzo nel suo studio. Due kohan, due meditabili, o forse solo due souvenirs de Bretagne.

Al piano di sotto, proprio di fronte al settore della biblioteca che incapsula Breton e gli altri, c’è una finestrella incassata nel muro, una nicchia verso l’esterno. Dentro c’è un blocco contorto di corallo blu, “il sogno infranto del Surrealismo”, o quello che il Surrealismo avrebbe potuto essere. Come dire: “dal Surrealismo del sé alla Geopoetica del mondo”. Al piano di sopra, appollaiati alle travi del tetto, un corvo e un gabbiano imbalsamati. Il primo vola basso, sta attaccato alla terra, si inoltra nell’intrico del bosco. Il secondo vola solo in alto, nella luce e nelle correnti rarefatte. Il nero e il bianco, lo Yin e lo Yang, la terra e l’aria, inspirare-espirare… e ti vengono in mente molte altre coppie di opposti che solo la poesia fondamentale può dinamizzare. Ma adesso hai finito di scrivere. Potevi fare di meglio, questo è vero, ma puoi sempre chiedere a qualcun altro di provarci.
[pubblicato su “IBC”, VII, 2, 1999]