Grendel Astray

Walk on air against your better judgement.
Seamus Heaney

Dopo l’inutile proemio della cronaca

Grendel si chiude nella tana, si chiude le orecchie per non ascoltare, si chiude ancora di più dentro dentro di sé per rifiutare l’universo dei viventi e vivere da mostro esiliato. A Heorot lo scaldo canta le Origini del Mondo, la terra separata dalle acque, la vita che accelera nelle vene animali, l’infrascarsi della terra che bisbiglia vegetali (e immediatamente torna in mente il “nuovo” frammento di Gilgamesh, con la Foresta di Cedri, rumorosa di uccelli e di scimmie). Ma Grendel non solo non vuole ascoltare il suono della creazione cantata dal poeta, creazione luminosa che lo ha escluso, lui mostro, dalla socialità delle sale della gioia; Grendel odia, Grendel invidia, Grendel vuole vendicarsi di quel canto perché è il figlio di Caino, escluso dalla vita dell’uomo, e perché tutta la creazione è per lui un insulto.

Abbiamo un lungo futuro alle spalle, fatto di libri non più letti da rileggere, fatto di rilegature spezzate da restaurare, fatto di traceologie da esumare nel presente. Grendel è lo spirito dei tempi, nel suo negare che esprime odio, nel suo desiderio di distruzione generazionale, nella sua patetica tristezza senza consolazione. Grendel come Beowulf, Beowulf come Grendel, mostro bifronte dello storytelling antropocenenico, mostro fossile-guida dei collassi in atto. E mostro delle lacune fertili. Mostro del futuro in frantumi. Mostro della perdita delle genealogie cognitive. Mostro del furto delle idee nel deserto di idee. Lo scrittore contemporaneo, un po’ Grendel un po’ Beowulf, più Grendel che Beowulf, cova in sé una vocazione di annientamento che è tutta in quelle orecchie tappate, in quelle mani premute per assordare i timpani. La grande cecità di Ghosh è in fondo sordità al canto del mondo, è vocazione anticosmologica, è l’aperitivo letterario contro la sala della birra, è la faida contro il convivio.

Scriptoria

Pioveva mentre doveva nevicare.

Quando uscimmo per cogliere agrifoglio

i fossi affogavano, eravamo bagnati

fino al ginocchio, le mani tutte graffiate

e l’acqua ci scorreva nelle maniche.

Avrebbero dovuto esserci bacche

ma i rametti che portammo a casa

luccicavano come cocci di bottiglia.

Adesso eccomi qui, in una stanza ornata

con foglie di cera e bacche rosse,

e ho quasi scordato che cosa significhi

esser bagnato fradicio o anelare alla neve.

Come chi dubita tendo la mano a un libro

e desidero che avvampi attorno a essa

un cespuglio di lettere nere, un muro di scudi scintillante,

tagliente come l’agrifoglio e il ghiaccio.

Seamus Heaney ha esplorato il nesso tra poesia e vita monastica in modo non scontato. Lontano da cliché e facili metafore, per lui, che era irlandese, la poesia esiste in questo strano equilibrio tra paganesimo e cultura dello scriptorium, tra selvatichezza dei paesaggi e costruzione meticolosa del sapere. Come in certe miniature fantastiche, il lavoro del poeta è quello di far stare in un unico luogo la ragione delle parole e l’archetipo intuitivo delle immagini. In questi tempi di trapasso culturale, nel nostro Tardo Occidente, la vita monastica (una laica, non trascendente, ripresa più per la pratica del tempo e del corpo che per tutto il resto) è un paradigma importante su cui riflettere, se vogliamo ragionare di cultura del libro nei guasti della pandemia e del collasso dei saperi. L’assenza del corpo, la frammentazione del tempo, sono in collisione con il mondo dei saloni, delle presentazioni, dell’economia di sussistenza libraria. Nonostante le narrazioni di normalità, le cose sono davvero cambiate e adesso più che mai c’è bisogno di un cambio di paradigma. Non si può più andare a caccia di lettori in eterno con acrobazie digitali. Può funzionare forse in questo interregno in cui la confusione è alta ed è ancora possibile proporre formule in bilico tra nostalgia e bisogno di mercificare, ma la recessione e l’assuefazione hanno già fatto fatto danni irreparabili. Come in una selva del disordine.

Sylva anthropocenica

Bisogna riflettere su quale tipo di rifugio puntare per sopravvivere nei prossimi tempi di scarsità. Invece di cercare lettori usando le vecchie esche, che già davano segni di crisi, è necessario rovesciare l’immagine in cui pensarsi. Scriptoria, monasteri, oratori non erano luoghi del dentro, del chiuso, del ripiegamento e della fuga dal mondo, erano luoghi propulsori che funzionavano perché dotati di regole e perché sbilanciati su un fuori distruttivo e selvatico, che non veniva escluso ma incorporato. Per noi quel fuori è l’Antropocene. Oggi al lettore, scrivendo, confezionando libri, parlandone, bisogna offrire qualcosa di veramente calato nei tempi, come entrare nel silenzio assorto dello scriptorium e non nel vuoto gracidante di un forum virtuale.

Il messaggio al lettore dovrebbe essere diverso: abbiamo idee, abbiamo cibo e protezione gratis, abbiamo una comunità, cercaci e ci troverai. Se il mondo del libro non ha ceduto totalmente al principio neoliberista, se il business as usual è inadeguato e forse criminale, allora dobbiamo spostarci mentalmente in una penisola irlandese e riflettere sul libro da un punto di vista decentrato. Gli strumenti per pensare ci sono. Una delle guide più importanti resta Copisti e filologi di Leighton Reynolds e Nigel Wilson. Oggi più che mai un testo attuale per due motivi: il primo è che tracciando una storia culturale dell’oggetto-libro permette di affacciarsi sulla relazione ineludibile tra materiali di supporto e trasmissione del sapere; il secondo è che mostra come i modi di archiviazioni della conoscenza cambino periodicamente mentre questi cambiamenti sono imbuti in cui molto si perde e solo qualcosa sopravvive nelle epoche successive alla selezione. È superfluo sviluppare il collegamento con l’epoca presente.

Riarrotolare rotoli

La rete è un tritacarne sincronico. Chi dice le cose prima è contemporaneo di chi le dice dopo. Chi dice le cose dopo ha buone chance di oscurare chi le dice prima. Questo perché la distribuzione grafico-spaziale dell’informazione in rete è bidimensionale: ciò che viene dopo copre ciò che viene prima in base al “principio del rotolo”, che oggi si chiama appunto scroll. I rotoli antichi, quando erano molto lunghi, venivano letti srotolando e contemporaneamente riarrotolando la parte già letta. Se insomma volevi tornare indietro e rileggere un passo che si trovava duemila parole prima era un’enorme seccatura, ma questa seccatura analogica teneva il lettore in contatto con la struttura spazio-temporale del testo. Noi ne facciamo esperienza con il classico libro cartaceo, dove tornare indietro è facile e lo spessore delle pagine spazializza l’idea di tempo: c’è un prima, un durante, un dopo. In rete invece lo scroll dei blog e delle riviste on line è un pozzo in cui si gettano cose e per recuperarle ci affidiamo a tag, cronologie di archiviazione e motori di ricerca. Quindi non solo abbiamo a che fare con un sistema di visualizzazione antiquato e con un’organizzazione del sapere scomoda, ma per ovviare a questa scomodità riduciamo a un click la temporalità con cui il sapere si organizza.

Tutto questo condiziona il modo di fruire i testi in rete al punto da generare un condizionamento cognitivo: un sapere totisimultaneo è anche un sapere tautologico, in altre parole, se azzeriamo i paletti percettivi che ci aiutano a organizzare la conoscenza secondo tassonomie, sistemi, gerarchie e genealogie, ci ritroviamo immersi in una macedonia informativa in cui solo le persone competenti sanno navigare davvero. In genere si tratta di coloro che venendo dall’esperienza degli archivi analogici sanno “scegliere”, “discernere”, “scartare”, “riconoscere”, “comparare” le informazioni. Oggi si vedono invece molti praticanti culturali che scrivendo (solo) in rete non hanno la minima idea della distribuzione spazio-temporale delle fonti, con un conseguente, tragico e a volte comico dissolvimento della relazione di distanza/prossimità tra sé e l’informazione. Qual è la prima conseguenza? Che tutto è di tutti, il che non sarebbe male se vivessimo in una comunità di cacciatori-raccoglitori. Vivendo invece in un mondo individualista/neoliberista, dove si fa a gara per dire la cosa più nuova e più cool, siamo invece in un’altra zona, quella del narcisismo e del furto delle idee.

Imbuti e font

Il secondo esempio riguarda la cosiddetta “rivoluzione carolina”. Carlo Magno, che aveva una cancelleria prodigiosa e che volle lasciare il segno della rinascita culturale da lui avviata, stimolò la diffusione di un nuovo stile scrittorio elaborato nel monastero di Corbie. Nello scriptorium benedettino si distillò una minuscola corsiva molto più chiara ed elegante di tutte le minuscole corsive vernacolari che si trovavano in giro a quel tempo. Era così bella e leggibile che soppiantò ogni altra grafia generando una sorta di moda manoscritta e stimolando un revival degli antichi testi classici, che venivano ricopiati con le nuove lettere e che diventarono più fruibili ovunque. Dietro questo lavoro di superficie, però, c’era la testa dei monaci, che erano gli intellettuali del tempo, e che ovviamente avevano idee molto profilate su cosa fosse importante e cosa no.

La minuscola carolina favorì una grande fioritura culturale ma contemporaneamente generò un imbuto, perché molti classici ritenuti per la sensibilità del tempo meno importanti non furono più trascritti, vennero dimenticati e in molti casi andarono perduti per sempre. Autori conservati dalla tarda antichità all’alto Medioevo saltarono il passaggio del medium, i papiri e le pergamene si sbriciolarono e interi scaffali di letteratura, filosofia e scienza svanirono. Lo stesso accadde con l’invenzione della stampa. Si è molto parlato e ricamato sulla smaterializzazione delle immagini e sulla prudenza che dovremmo mostrare di tanto in tanto facendo stampare su carta le nostre fotografie digitali. Altrettanto si è detto ritracciando la storia del passaggio dal Super 8 al VHS al DVD, o dal floppy disk al CD al Cloud. Il passaggio di medium è sempre un momento decisivo, in bilico tra trasmissione e oblio. Dobbiamo scegliere, insomma, e scegliendo pensiamo in automatico a ciò che è importante adesso e qui. Ma la storia dei manoscritti medievali dovrebbe ricordarci che interessi e priorità cambiano con le mode, le generazioni e i passaggi d’epoca.

Per un’esoeditoria portatile

Torniamo allo scriptorium e al destino del libro nella sua doppia articolazione cartacea e digitale. Quello che stiamo rischiando di perdere, oltre alla prospettiva diacronica su passato e presente, è appunto il pensiero generazionale, cioè la capacità di proiettarci in un dopo che non esiste ancora ma che certamente, in qualche forma, esisterà. In altre parole farsi domande inattuali e prosociali come “chi saranno i lettori?”, “che cosa vorranno leggere?”, “di che cosa avranno bisogno?”. C’è un rumore nella cronaca, nel nostro aderire a un presente in frantumi, che ci impedisce di considerare domande simili come centrali e salvifiche. Il problema è che anche il libro come oggetto, come idea, come economia, va proiettato sul fondale perturbante dell’Antropocene.

La rete è uno strumento meraviglioso, che ci ha emancipato, che ci ha letteralmente salvato e che ci salverà durante la quarantena, che permette di inventare nuove forme di socializzazione, ma la rete è anche un imbuto che sta facendo passare come ovvia un’idea di trasmissione del sapere che porta il fruitore a delegare ad altri non solo il cosa ma anche il modello con cui questo cosa si organizza. Qual è invece il modello che servirà veramente tra venti, trenta, cinquant’anni? Che cosa possiamo fare adesso? Spegnere il Game? Invertire la rotta? Inebriarsi del profumo della vecchia carta stampata? Un’utopia del libro, nostalgica, escapista, può servire solo a salvare spiriti singoli o piccoli gruppi di resistenti, ma non è quello di cui tutti avranno bisogno. Quello a cui si deve pensare invece è uno scriptorium virtuale dotato di una regola, di un’idea di tempo come lunga durata e di una vocazione generazionale.

Il libro-del-dopo

Oggi la posta in gioco non è salvare il business, è la sopravvivenza del libro come strumento di sopravvivenza. Per uscire dalla palude di Grendel l’unica via praticabile è pensare (radicalmente, come una diserzione) un altro modo di essere libro. Non “fare libri”, essere. Un libro completamente sganciato da logiche mediatiche e di mercato, politicamente antitetico al neoliberismo consumista, fatto per durare oltre i tempi della cronaca libraria e critica, proiettato verso il dopo. Esattamente come oggi è necessario scrivere in prospettiva generazionale, cioè pensando a chi leggerà non nel presente ma dopo il presente, così il libro-del-dopo deve essere pensato in modo spregiudicato come un codice medievale lanciato in avanti verso un possibile Rinascimento. Questo libro esiste in potenza in tutti gli errori attuali, esiste per antifrasi e in anarchica autonomia, è inattuale, è bisognoso di decifrazione, di tempo, di rilettura. La sua fattura, la sua estetica, deve essere pensata come si progettano le strutture per conservare i semi destinati alle generazioni future. Oggetti lanciati verso il domani come capsule del tempo, codici di piccolo formato da usare adesso, ma anche abbastanza resistenti da sopravvivere al collasso, qualunque esso sia.

Il libro deve insomma diventare un tool antifragile e al tempo stesso un amuleto, un antidoto, come un coltello svizzero, maneggevole, solido, plurale, bello da tenere in mano, da sentire in tasca attraverso il tessuto. Ma immaginate un coltello del genere prodotto con lame di plastica che non tagliano. Sarebbe un giocattolo, un’imitazione. Invece il libro-del-dopo deve somigliare a un messale laico per uso quotidiano, un Libro delle Ore per l’Apocalisse, un Secretum, una mini-cinquecentina che racchiude tutto lo scibile indispensabile in forma portatile. Immaginiamolo: 13 x 16 o 14 x 17, stampato con font che ricordi la pulizia elegante della minuscola carolina o del primo Bodoni, carattere piccolo ma intagliato, vivagni che respirano, di tanto in tanto tra le pagine delle immagini in bianco e nero come timbri o xilografie o chine, carta resistente non trasparente ma sottile, rilegato a filo ma in modo molto semplice, copertina flessibile, conservato con i propri simili in una cassetta di legno e trasportabile singolarmente in un sacchetto di tela cerata che si può assicurare alla cintura. Eccolo: in bilico tra mini-incunabolo e mappa IGM, tra artigianato sobrio e survival kit, tra epitome di frammenti narratologici e manuale intuitivo di theory fiction, equidistante dal ciclostile come dal libro d’arte. E soprattutto senza editore, senza ISBN, senza prezzo. Perché il libro-del-dopo non si vende. Si regala, si scambia, si dimentica sul tavolo di una taverna.

[Questo testo, uscito il 18 giugno 2020 su “Doppiozero” con il titolo Dopo il collasso dei saperi, è qui ripensato, modificato e ampliato].

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