A cosa servono i selvaggi?

George Landow, in Hypertext. The convergence of contemporary critical theory and tecnology (1992), a un certo punto fa riferimento alle modalità narrative degli abitanti delle isole Trobriand. In particolare sta pensando a ciò che scrive Dorothy Lee:

Un Trobriandese non parla di strade che connettono due punti o che vanno da un punto a un altro punto. I suoi sentieri sono auto-contenuti, sono nominati come unità indipendenti; non sono per o da, sono a. E lui stesso è a; non ha equivalenti per i nostri per o da. C’è ad esempio il mito di Tudava che va – secondo il nostro punto di vista – di villaggio in villaggio e di isola in isola piantando e offrendo patate dolci. […] I luoghi sono enumerati uno dopo l’altro, ma la sua navigazione “da” e “per” è data come un evento discreto.

Sebbene l’esempio fosse dato per mostrare come in alcuni casi la linearità non svolga un ruolo centrale nel racconto, e anzi possa essere rigettata del tutto, Landow faceva notare che l’ipertesto (per come era stato concepito e realizzato in quegli anni) era solo una variante “multilineare” della vecchia narrativa “lineare” di stampo occidentale. Come sempre accade quando si va a pescare nel calderone dell’etnologia, Landow pensava a una ricaduta in chiave occidentale di esperienze esotiche: «la descrizione delle strutture a raggruppamenti proprie delle isole Trobriand può forse dare spunto alla creazione di forme di ordinamento ipertestuale». In altre parole, suggerisce l’idea che strutture della percezione diverse da quelle del moderno Occidente potrebbero servire come modello a un autore di ipertesti. Questa ipotesi di lavoro, espressa piuttosto in sordina a chiusura di una nota tra le più brillanti del libro, dice in realtà qualcosa di più. In qualche modo, cioè, l’ordinamento di un ipertesto deve rispecchiare una concezione della realtà, o almeno una modalità della percezione-rappresentazione del mondo. Ma, soprattutto, ci sta dicendo una cosa che dovrebbe essere evidente oggi più che mai: andare a vedere le esperienze narrative del Grande Altrove può servire allo scrittore occidentale contemporaneo per non morire nelle secche culturali in cui si crogiola.

In Esiste un mondo a venire? (2014) Déborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro dedicano un capitolo alla fine del mondo degli Indios. Citando l’ormai classico La caduta del cielo (2013) di Dawi Kopenawa, riportano le parole profetiche dello sciamano yanomami: «I Bianchi non temono, come noi, di essere schiacciati dalla caduta del cielo. Ma un giorno avranno paura, forse quanto noi!». Intrecciando la lettura “antropocenica” di Kopenawa con Enquêtes sur les modes d’existence. Une anthropologie des Modernes (2012) di Bruno Latour, in cui dice che siamo in presenza di un «ritorno progressivo alle cosmologie antiche e alle loro inquietudini, che all’improvviso ci si accorge che non erano così infondate», si arriva secondo noi a un esito troppo univoco, cioè a una lettura solo apocalittica delle mitopoiesi indigene. Invece l’idea che ci interessa qui, per recuperare e svecchiare Landow, è proprio quella di guardare alle etno-letterature del mondo come a repertori potenziali di immaginari operativi. In realtà Danowski e de Castro vedono già più lontano quando mostrano che le mitocosmologie amerindie stanno operando un potente sincretismo tra tradizione e modernità, incorporando ad esempio nelle loro narrazioni la retorica ambientalista ma soprattutto aprendo vie di contaminazione nell’altro senso, dal mondo indio al mondo occidentale.

Prima di dare alcuni consigli di lettura va chiarita una cosa: attingere a repertori etnici non è né saccheggio coloniale né de-civilizzazione primitivista. Più semplicemente, si tratta di estrapolare dal macrotesto etnico una nuova grammatica dell’immaginario o, detto per spiriti più pragmatici, un fascio di combinazioni cognitive che offrano degli spunti alternativi per ripensare e riscrivere il mondo. Non è questione, insomma, di “ispirarsi” a qualche libro esotico, nello spazio e nel tempo, per assimilare frettolosamente qualche sapore “lontano”, non si improvvisa un ethnobuilding senza aver colto i paradigmi culturali e cosmopoetici di un gruppo umano. Quello che occorre fare è decodificare l’intreccio tra mito narrato ed esperienza vissuta per capire le regole profonde della mitopoiesi. E mettersi a scrivere.

Davi Kopenawa, La caduta del cielo, Nottetempo 2018.

Minnie Aodla Freeman, Life Among the Qallunaat, Hurting Publisher 1978.

Jean Malaurie, Les derniers rois de Thulé, Plon 1989.

Richard Nelson, Make Prayers to the Raven, The University of Chicago Press 1983.

Robert Bringhurst, A Story as Sharp as a Knife, Douglas & McIntyre 2011.

Hugh Brody, Maps and Dreams, Douglas & McIntyre 2013.

Keith Basso, Wisdom Sitis in Places, University of New Mexico Press1996.

Peter Nabokov, Where the Lightning Strikes, Penguin 2007.
James Bonwick, The Daily Life and Origin of the Tasmanians, Cambridge University Press 2011 (!870).
Steven Feld, Sound and Sentiment, University of Pennsylvania Press 1990.

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