Tristis est anima mea

Disclaimer: inevitabili spoiler, parti dello svolgimento, colpi di scena, affrontano temi rilevanti ed evocano parole chiave.

La serie TV 8 Tage (Otto giorni alla fine, 2019), diretta da Michael Krummenacher e Stefan Ruzowitzky, è una produzione Sky Germany a budget ridotto. La computer graphic della sigla è decisamente scarsa ma viene compensata dalla colonna sonora di David Reichelt, che rivisita il secondo responsorio delle Tenebrae del Giovedì Santo: Tristis est anima mea usque ad mortem: / sustinete hic, et vigilate mecum: / nunc videbitis turbam, quæ circumdabit me. / Vos fugam capietis, et ego vadam immolari pro vobis. Cristo nel Giardino degli Ulivi conosce il giorno e l’ora esatta della propria morte, proprio come gli abitanti della miniserie che verranno annientati dall’asteroide Horus. Le otto puntate, in un countdown che è un crescendo di angoscia e desolazione, esplorano con crudeltà autoptica lo smagliarsi progressivo di speranze, certezze, sovrastrutture emotive e sociali, gerarchie ideologiche, valori di Homo sapiens. Le finzioni crollano, puntata dopo puntata. Una specie di esperimento sociale di scenario, che in maniera abortita ha ispirato anche la campagna pubblicitaria della serie: nel 2019, alcune testate giornalistiche tedesche, in una rivisitazione sgonfiata del broadcast The War of the Worlds di Orson Wells, hanno dedicato la prima pagina alla notizia che un asteroide di 60 km di diametro avrebbe colpito l’Europa entro 8 giorni, per poi rivelare a pagina 2 che si trattava solo di una pubblicità televisiva. La reazione della gente è stata profondamente scettica, ma la prima puntata è stata seguita da 4 milioni di persone. Complimenti al pubblicitario.

Nella seconda puntata, la protagonista femminile che è medico annuncia a un ragazzo malato di cancro che gli restano pochi mesi di vita. Il ragazzo sta leggendo un libro per venire a patti con la morte, ed elenca le 5 fasi di reazione psicologica: negazione, rabbia, patteggiamento, depressione, accettazione. Ma le reazioni potrebbero moltiplicarsi in molte altre sfaccettature, ad esempio nostalgia, solitudine, passione, tradimento, disperazione, ossessione, fuga, cinismo, tristezza. A questo punto viene in mente Melancholia di Lars von Trier, l’angoscia metafisica, il nichilismo alla Brassier, la fine di ogni evento (a partire dal cicaleccio famigliare e borghese), che poi è un altro modo per dire una cosa molto di moda adesso: la catastrofe in realtà è già avvenuta. Ma quale catastrofe? La lenta estinzione verso la stupidità collettiva? L’insufficienza di ogni reazione possibile? Il fallimento del pensiero magico e del suo tentativo di salvarci in un’altra dimensione? Secondo noi de Il problema di Grendel, 8 Tage è molto meno e molto di più di Melancholia di von Trier. Intanto una cosa è certa, il secondo dialoga col primo fin dalle immagini di lancio: una donna in abito da sposa che affronta come una Vergine interrotta la collisione col Nulla.

Die Schauspieler Mark Waschke, Lena Klenke, Claude Heinrich und Christiane Paul (v.l.n.r.) am Set von ACHT TAGE

Torneremo sull’immagine della “sposa celeste”. Una volta fallito il tentativo di deviare Horus con il lancio di missili balistici armati con testate nucleari, il dubbio sulla fine si dissolve. E si dissolve un’intera era dell’immaginario. L’inutilità dei feticci della Guerra fredda, il missile intercontinentale e l’arma atomica, sono l’evidenza pratica e concettuale che nulla di già inventato, escogitato, immaginato, è efficace nella nuova era antropocenica. Il paradigma cognitivo ha uno shift verticale: dalla tragedia di Cassandra al Getsemani. Il mondo di Cassandra crede che le mura reggeranno perché non sono mai cadute prima, la guerra non è decisa, ci sono ancora compromessi, riti, espedienti tattici e magici da usare, la narrazione profetica rimane interiore, poi Troia è caduta, ma si raccontano ancora storie di onore, resistenza, tradizione e vittoria. Adesso invece il modello di Kübler-Ross non funziona più, proprio come un ICBM (Intercontinental Ballistic Missile) può servire quanto un apriscatole contro una portaerei. Cristo sa di essere stato abbandonato, così gli abitanti dell’Europa occidentale. Il fondamentale ottimismo di specie di film come Armageddon e Deep Impact (entrambi del 1998) sparisce, è inadeguato. Queste storie sono l’ultimo strascico narrativo della vittoria sull’Impero del Male sovietico. La tecnologia dual-use dell’ingegneria spaziale – accessory to war, titolo e definizione di Neil deGrasse Tyson e Avis Lang – e la potenza degli Stati Uniti che salvano il pianeta dell’Olocene sono un racconto concluso. Due decenni dopo e in un’altra era (sì, adesso è l’Antropocene, la tragedia di Cassandra ha avuto uno shift da momento narrativo interiore o per piccole comunità a momento narrativo collettivo e di specie) la solida ed efficiente Repubblica Federale Tedesca è descritta in 8 Tage come a due minuti dall’essere un failed state. Fallimento politico, sociale, biologico.

Nel film di von Trier, l’oggetto Melancholia, in rotta di collisione con la Terra, è metafora del complesso delle sovrastrutture borghesi che crollano nella loro lillipuziana insufficienza, un prodotto sociale del collasso sul fronte interiore. In 8 tage, Horus porta al Tribunale delle Civiltà un intero sistema di sistemi, fondamenti e fondamenta del Leviatano e le faglie del tardo capitalismo trascurate troppo a lungo. Mentre cittadini tedeschi provano la fuga verso est, contro frontiere militarizzate e affidandosi alla fortuna della disperazione con passeur e trafficanti di esseri umani, i politici si arricchiscono, si preparano nel trope – non solo televisivo – della fuga dei ricchi e potenti nelle fortezze sotterranee, continuano un backstabbing come in un post di Merkel che Covid-19 interrotto, si trasformano in piccole mafie locali con guardie del corpo che sembrano sicari russi. La maggioranza dei cittadini non comprende che le finzioni di legalità, Ordnung, diritti umani, uguaglianza in quanto cittadini, si sono concluse. Erano tutte fiction, per usare la denominazione di Harari, valide nelle loro formulazioni nell’Olocene, prima della metafora/arrivo di Horus. Dopo il Getsemani, il Calvario: è il determinismo narratologico. Intanto, restano otto giorni per escogitare come sopravvivere. I nuovi tool per farlo, dal furto di posti d’élite alla autoprostituzione, gli struggle per trovarli ed escogitarli, sono l’Interregno: vos fugam capietis. Ma la fuga è l’ultima fiction. E l’Interregno non ha un dio-del-dopo ad accoglierci. Così la serie si limita a snocciolare una sorta di catalogo tipologico, uno Zoo di Berlino senza sorprese: il poliziotto che continua a fare il suo dovere quando i colleghi gettano la spugna; il portaborse vigliacco che briga per avere un posto sull’Arca; il prete abbandonato dai fedeli; il prepper viscido e fascistello; i redneck brutali e già animalizzati; i giovani seppelliti nell’orgia collettiva di corpi e droghe; il vecchio nostalgico della DDR che si suicida in divisa; la famiglia comune con i suoi problemi da famiglia comune; il “Cristo”. Ecco. Di tutte le comparse stereotipate, tutte abbastanza dimenticabili, quella di Robin (David Schütter) è forse la meno banale, certamente la più “nuova” nello zeitgeist narrativo.

Uscito di prigione, decisamente retarded, non sa nemmeno leggere, non è connesso col mondo, ha visioni alla Giovanna D’Arco quando fissa i nimbi di fuoco in controluce, si fa di crack in una comunità di veterofattoni sessantenni, si scopre Cristo un passo casuale alla volta. Così, con qualche frase stereotipata, con qualche piccolo gesto di non violenza, con poche occhiate languide da cerbiatto ferito si costruisce un seguito che è pronto ad accompagnarlo su una vecchia chiatta fluviale dell’alleanza, come in Fitzcarraldo di Herzog. Aiuta perfino una sedicenne a perdere la verginità prima della fine e si autoimmola in extremis perché non ha “sofferto abbastanza” e Dio ha smesso di parlargli. Al campionario spirituale pop manca solo che si metta ad abbracciare alberi e a trasformare in eucarestia dei funghi eduli o psicotropi, anche se noi, da Mancuso a Shaldrake, sappiamo adesso che il non-umano vegetale è il nuovo candidato del pensiero soteriologico. Ma perché Robin-Cristo-Fitzcarraldo è così interessante? Perché mentre il prete nella chiesa deserta è un fantoccio della Guerra Fredda, il nuovo Messia tra città e periferia da terzo paesaggio è la metafora perfetta del crollo cognitivo nell’Antropocene. Attorno a lui si raduna una Corte dei Miracoli Semplificata: psichedelici di riporto, spiritualisti, neo-hippie, delusi o rigettati dal Dogma, pressapochisti informativi, ignoranti e basta, marxisti con l’aggiornamento di sistema in blocco, professori e professori mancati che spulciano academia.com per copiare, mediatori culturali pagati a piatti di lenticchie, intellectuals yet idiots, animisti magico-sensitivi, cromatoturisti, anime belle. Inutile dire che la barca meravigliosa dei padri pellegrini non partirà mai, ingolfata da anni di incuria.

Ecco allora che 8 Tage espone vari tipi narrativi di quel complesso immaginifico del tardo capitalismo che definiamo escapismo. Mentre Horus si avvicina inesorabile, giovani e meno giovani riuniti in una villa modern-chic con piscina, il cui proprietario sembra sparito, partecipano a un rave consumando droghe, resti di cibo e alcolici abbandonati in una periferia suburbana tedesca, che sembra già spopolata nell’onda di suicidi e fughe. L’Alfa della festa alla fine del mondo è il ragazzo che sta morendo di cancro incontrato dalla protagonista. La Schadenfreude della morte incombente e continua (“non solo io, anche voi siete fottuti!”) potrebbe già colmare l’orizzonte narrativo, invece si insiste molto sull’escapismo edonista e psichedelico. Basta un attimo, infatti, una morte provocata dal prepper e sentita tra i partecipanti al rave (la realtà che irrompe con un fendente trasversale) perché la fuga si concluda e così la festa. Se ne vanno tutti. Anche il tentativo lisergico ha le gambe corte. Come corte sono le gambe di un altro personaggio, l’anziano padre, il nonno, che prova a fuggire l’apocalisse rintracciando il suo vecchio commilitone con cui aveva avuto in gioventù una relazione omosessuale. Come l’escapismo psichedelico anche quello alla ricerca del “vero” io interiore fallisce. Proprio come tutt’intorno falliscono il “mito del dovere” del poliziotto abbandonato nella centrale vuota; il “mito della madre”, prima amante fedifraga e poi prostituta per salvare sé stessa e i figli; il “mito survivalista” del preparatissimo piccolo imprenditore che viene tradito dai suoi gregari e dal suo stesso sangue; il “mito dell’efficientismo” tedesco e della democrazia di facciata; il “mito della verità” di una sinistra ideologica che in nome della giustizia per tutti (o per nessuno) distrugge la scialuppa di salvataggio della specie; il “mito della trascendenza” e infine anche il “mito dell’amore”.

Il sottotesto della serie è chiaro: nell’apocalisse imminente, il non aver affrontato e risolto le questioni del patriarcato, del razzismo, della diseguaglianza, della fiction delle frontiere e gli status di cittadinanza che sostengono, della doppelmoral, dell’ambiguità verso le questioni rilevanti e fondamentali, è mortale. Uno dei personaggi principali, il fratello del medico, un gray man che vive da poco in un loft prestigioso a Berlino, ha “comprato” la salvezza dopo alcune operazioni torbide al servizio del politico che ha aiutato a far eleggere. Un lavoro sporco dopo l’altro, l’uomo è diventato ricco, e con il denaro e l’influenza che i compromessi del sistema riescono a raccattare ottiene due biglietti aerei per gli Stati Uniti. Uno per sé e l’altro per la fidanzata incinta. Dopo qualche traversia è la notte dell’imbarco verso la salvezza, lui è convinto di essere un migrante di lusso, un eletto. Gli Stati Uniti sembrano un’Arca di dimensioni continentali. Lontani dal punto d’impatto di Horus l’America è la meta di europei ricchi e potenti (Spoiler: una valigia piena di dollari è diventata piena di carta inutile, il premio per aver servito il suo politico di riferimento contro gli interessi della collettività non è sufficiente, il personaggio non riuscirà a scappare). Si tratta di una variante antropocenica del sogno americano e del suo crollo: Horus causerà un abrupt climate change in tutto il globo, devastazioni e carestie severe sono attese ovunque. Chi scappa va troppo in là con la mente, con il desiderio, con le proiezioni e le speranze, ma nessuno può dire veramente se il disastro risparmierà chi è riuscito a lasciare l’Europa.

Di escapismo in escapismo si arriva a quello più inossidabile, l’escapismo ideologico. La sorella della “sposa celeste” è un’attivista e una giornalista d’inchiesta. Ruba dei documenti a casa del gray man, “svolge” il suo dovere di cronista cioè svelare gli intrighi e gli imbrogli del potere. Così rivela la posizione dei bunker governativi in diretta TV, strutture che non bastano per tutti e che vengono assaltate dalla popolazione e da membri delle forze armate lasciati fuori dall’arca. Nelle storie dell’Antropocene nessuno è innocente, così la giornalista, che in qualche modo segue un’etica pre-catastrofe, accelera la dissoluzione della società e causa innumerevoli vittime. Nel crollo dei saperi, anche etici, che emerge in un collasso il passato prossimo della civiltà è dannoso o inutile. Ecco che il traffico illegale di organi causa l’apocalisse in Germania in World War Z di Max Brooks, come il mercato nero di un vaccino contro il Covid-19 potrebbe causare vittime tra i first responder e le categorie a rischio. Ma per chiudere la lista degli escapismi in 8 Tage, emblematico è quello più mainstream: il bunkerismo. Nella serie il governo allestisce, come già detto, una serie di bunker. Ordinati, autosufficienti, sono biomi umani sotterranei attrezzati per un reboot del vecchio mondo: insieme a trattori e scorte alimentari, Glock e depositi di carri armati. Apparentemente inattaccabile, perfetto, prodotto del genio umano, l’enorme bunker crolla in poche ore dopo l’annuncio della giornalista. Già Cixin Liu aveva ripetutamente illustrato l’inadeguatezza dell’escapismo nel bunker come pensiero di resistenza e sopravvivenza all’Evento X. Ogni soluzione che preveda la salvezza di alcuni è falsa, l’interruzione di un patto fondamentale tra umani provoca il fallimento di qualsiasi sistema di sopravvivenza selettiva o parziale: i naufraghi rovesceranno la scialuppa di salvataggio per quanto ben armata ed equipaggiata. C’è un bunker in The Road di Cormac McCarthy, probabilmente un container sepolto, nel giardino di quella che un tempo era una bella villa. Assolve la funzione necessaria di dare ai protagonisti le forze per continuare il cammino lungo la Strada, ma se è intonso significa che i ricchi proprietari della villa non sono riusciti ad arrivarci…

In Bunker Archéologie. Etude sur l’espace militaire européen de la Seconde Guerre mondiale (1975), Paul Virilio, che è per la filosofia quello che DeLillo è per la narrativa, scrive: «La funzione di questa struttura molto speciale è di assicurare la sopravvivenza, di essere un rifugio per l’uomo in un periodo critico, il luogo dove ci si seppellisce per resistere. Se dunque ha a che fare con la cripta che prefigura la resurrezione, il bunker ha anche a che fare con l’arca che salva, con il veicolo che mette fuori pericolo attraversando pericoli mortali. Letteralmente, casamatta significa “casa forte”, casa rinforzata; è sempre una specie di habitat, o piuttosto di abito, in ultima analisi un’armatura collettiva». Lo studio, che dovrebbe stare sulla scrivania di chiunque voglia parlare correttamente di Antropocene, esplora tra le altre cose l’ossessione di Hitler per i bunker, ma soprattutto inaugura, con questa che era una tesi di laurea in urbanistica, un’esplorazione del disastro lunga una vita. Tutto, nella illuminante e visionaria filosofia di Virilio, si può riassumere in una frase: il futuro è un incidente, un incidente tecnologico, informatico, finanziario e, ovviamente, il peggiore di tutti, un incidente cognitivo. In 8 Tage l’asteroide Horus massimizzerà il danno perché Homo sapiens ha minimizzato in modo sistematico e irresponsabile l’ipotesi dell’incidente. Un’autentica ingegneria del fallimento. Così i fautori dei bunker ci muoiono dentro proprio come Hitler, perché hanno peccato di hybris. Quello che invece Virilio non anticipa, forse per tenere i piedi per terra, è l’equazione ultima tra bunker e ventre materno. In Melancholia l’umanità si rifugia in un bunker d’aria, una capanna magica, una nicchia illusoria di neghentropia. In 8 Tage il bambino esce giusto in tempo dal ventre-rifugio della madre per essere vaporizzato dall’impatto dell’asteroide. Magia, biologia profonda, amore irrazionale sono la dote della “sposa celeste” che va a nozze con il Nulla. In realtà è solo un’ultima contrazione di umanità, una smorfia di riflesso, con cui si interrompe il racconto.

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