Tutto comincia in un tempo in cui la mente umana non era neanche un’idea, ma la mente umana viene direttamente da lì, da un’immensa savana cognitiva piena di cacciatori e cacciati. Il sistema nervoso di tutti i cordati ha codificato nei recettori e nei riflessi un catalogo di azioni/reazioni per fuggire e inseguire, per prendere di sorpresa e per non essere presi. La nostra “modernissima” sensibilità per l’horror, per gli inseguimenti automobilistici, per le ricerche indiziarie di detective e padri insospettabilmente violenti alla ricerca di figli rapiti, per i serial killer e per gli alieni divoratori viene da lì. Ogni volta che ci sediamo davanti a uno schermo si riattiva quella savana antica di milioni di anni, e a volte si riattiva anche davanti alla pagina di un libro. La narrazione ci affascina perché il suo irriducibile “come se” ci trasmette delle istruzioni per l’uso, ci aiuta a predare e a non essere predati, affina riflessi, reazioni, difese, simula attacchi. Quando però la letteratura non lo fa più, slittando nei terreni della fuga, della consolazione, del nido, la cosa da chiedersi se si vuole uscirne è perché. Perché, nelle uscite librarie del 2020, la pandemia ha paradossalmente cancellato o ridotto all’angolo il fantastico, il weird, l’horror, il collapse thriller, la climate fiction ai quali gli editori si stavano aprendo superando finalmente le questioni di “genere”? Perché da ora in avanti sarà sempre più difficile pubblicare libri anomali, sbilanciati sull’ignoto, non riducibili insomma alla triade securitaria lavoro-famiglia-vacanza?

Cominciamo da qui. Il felino abita i nostri sogni e i nostri incubi da due milioni di anni. Nonostante Homo abbia sconfitto Felis in tempi immemorabili (probabilmente quando Erectus e Habilis portarono Dinofelis all’estinzione), si trattò di una vittoria parziale: Homo non era più minacciato, ma Felis continuava a competere con lui nella caccia, e da primo antagonista biologico diventò un temibile concorrente alimentare. Con l’arrivo in Europa di Sapiens sapiens, i grandi felini del continente si estinsero, un’estinzione drastica, conclusasi prima del Neolitico, indizio non tanto dell’alterazione di un ecosistema, quanto di una caccia accanita e sistematica. Forse il loro sterminio, come quello del lupo a partire dal Neolitico, era diventato una priorità ideologica. Analogamente, i giaguari dei miti Olmechi sterminarono la prima popolazione umana del mondo e, per scongiurare un rigurgito della loro collera, venne istituito il culto del bimbo-giaguaro, divinità metà felino metà umano a cui bisognava sacrificare bambini. Si suppone che questo cerimoniale fosse il riflesso capovolto di una grande caccia rituale su vasta scala condotta contro i felini in fase pre-Olmeca. E forse queste battute di caccia senza quartiere generarono un trauma nell’inconscio dei Cacciatori Arcaici, un senso di colpa che riemerge in qualche mito, o l’eco di una grande paura per il timore irrazionale di subire rappresaglie cruente da parte della specie antagonista. Tutte speculazioni. Nessuna conferma archeologica o paletnologica, nessun indizio concreto.

Il punto è proprio questo: l’affabulazione contemporanea delle pseudoscienze, della criptozoologia e della pseudopreistoria misteriosa è un altro modo di spiegare lo strange romance che ci lega al felino, e che dal Bacio della pantera di Schrader a Il vecchio che leggeva romanzi d’amore di Sepulveda ha scavato un immaginario stabile nella pop culture occidentale, nelle mode etnofile e nelle filosofie “alternative”. L’elenco è lungo: in Cina lo Yin è l’essenza del principio femminile ed è simboleggiato da una tigre; la dea della fertilità Kuan Yin è rappresentata a cavallo dello stesso felino; in Egitto Sekhmet era la dea leontocefala della guerra, e Bastet dalla testa di gatta univa al calore solare le passioni ardenti; in India, Durga, la Madre Terribile, cavalcava un leone; anche in Grecia la dea della fecondità Cibele viaggiava su un carro trainato da leoni; la scandinava Freya, dea della terra, della libertà e della passione violenta si spostava su un carro tirato dai gatti, e il gatto era anche consacrato ad Artemide; nei sogni il leone è considerato indice di forze selvagge, indomite, maschili e penetranti, è uno spiritus mercurialis, ed evoca pulsioni sessuali incontrollate. Da Jung a Durand, da Jodorowski alla Metro-Goldwyn-Mayer, la caccia fantastica è appena cominciata…

In alcuni sigilli a cilindro di provenienza sumerica è raffigurata l’uccisione di Humbaba da parte di Gilgamesh ed Enkidu. I due eroi, uno a destra e uno a sinistra del mostro, sono ritratti nell’atto di tenerlo saldamente e di sollevare un’arma sopra la sua testa. A sferrare il colpo è Enkidu, l’ex-Homo sylvestris ora civilizzato, che con un’ascia o una mandibola di ruminante sfonda il cranio del Signore della Foresta, e commette fratricidio: in altri sigilli e bassorilievi, Enkidu è ritratto infatti come Signore degli animali o come irsuto umano seminudo, e quasi sempre, proprio come Humbaba, il suo volto è rappresentato in posizione frontale, esageratamente grande, con barba e capigliatura incolta, con grandi occhi e bocca spalancati, come una gorgone anguicrinita o un muso leonino. La parentela selvatica con il mostro della foresta, e l’abbattimento dei cedri per costruire il palazzo di Ur, sono all’origine della hybris che Enkidu pagherà con la vita, e al tempo stesso sono un gesto di fondazione architettonica, di riuso dei resti dello spazio incolto per costruire l’edificio culturale. L’eliminazione della foresta e la simultanea fondazione dello spazio urbano e agricolo periurbano sono un atto violento, un danno rimosso, che nutrirà il senso di colpa dell’uomo neolitico nei confronti del suo doppio paleolitico, come Gilgamesh e Enkidu, come Caino e Abele, come Ade e Persefone, o come i Vampiri e i Lycans di Underworld. Ma anche qui nessuna certezza, solo speculazioni neomitologiche e New Age per dare un fondale plausibile al dissolvimento delle Origini nella poststoria occidentale, e un bricolage visuale che riutilizza in modo indistinto mitologemi arcaici e leftover di cybercultura per dare presenza al presente. Si tratti dei leoni di Ninive, di Catwoman di DC Comics, di Wicca dei neopagani o della pornoecologia di Fuck For Forest, le declinazioni iconiche della selvatichezza ai margini del castello sociale hanno radici complesse. Quello che bisognerebbe studiare è una costellazione d’immagini.

Il legame tra morte e sessualità nel felino e nell’idea di predazione è illustrato ad esempio da alcune culture africane, come la credenza diffusa che la vista di un leone possa ridurre l’uomo all’impotenza sessuale; presso i Magussaua, invece, la circoncisione che introduceva alla maturità sociale e sessuale veniva praticata da un uomo mascherato da leone o da leopardo, che azzannava simbolicamente i genitali dell’iniziando; presso gli Adamaua lo stregone che circoncideva il ragazzo indossava una maschera di leopardo, e presso i Tschamba gli strumenti utilizzati per questa operazione erano contenuti in una sacca ricavata dalla zampa dello stesso animale. L’iniziazione alla sessualità attraverso la morte simbolica era strettamente connessa al felino, che prima uccideva e poi richiamava alla vita l’uomo nuovo. La sua proverbiale silenziosità durante la caccia, il suo apparire ubiquo, le sue rumorose, ripetute, violente manifestazioni sessuali, devono aver solleticato l’immaginario di molte culture. In altre occasioni certe posture verticali di leoni, leopardi, tigri e pantere appaiono quasi umane, e nessun altro animale, tranne le grandi scimmie e gli orsi, somiglia maggiormente all’uomo nella taglia e nella muscolatura. Infine, il fatto che i grandi felini comincino a smembrare la preda dalle parti molli, in genere proprio dai genitali, aiuta a capire il perché delle pratiche iniziatiche africane e della connessione (poligenetica/etologica) tra felino, sfera sessuale e morte.

Il felino, o la sua ombra, sembra tornato in chiave antropocenica. Dal futuro prossimo ci sta tendendo un agguato che possiamo esorcizzare voltando la testa o che possiamo affrontare sforzandoci di conoscerlo. Questo breve periplo antropologico/etologico ha così una doppia meta: mostrare come si possa scavare negli archetipi profondi della cultura occidentale; mostrare che la cultura occidentale continua ancora ad appoggiarsi a questi archetipi. Prendiamo allora un libro non scritto, il libro che dovremmo scrivere adesso per cominciare una specie di inchiesta poliziesca sull’enigma-Antropocene. Non potremo mai capire il senso del presente e del futuro che ci attende senza scavare nelle radici profonde del guasto, non quello esterno, oggettivo, il clima, la crisi economica, la pandemia, ma il guasto interiore che in bilico tra fascino e orrore ci condanna a una mente imperfetta, fallace, incapace di processare la complessità. L’Antropocene è un assassino in fuga che lascia tracce e indizi. Alcune di queste segnature sono sepolte in un passato così remoto da toccare la preistoria della specie. Se allora proveremo a scrivere questo libro, se vogliamo scrivere un racconto che si confronti davvero con il collasso della nostra epoca, dovremo tornare a quella savana di cacciatori e cacciati in cui il nostro cervello è stato plasmato prima di ogni letteratura orale o scritta.