A cosa serve la Nature writing? In che modo l’esperienza della Wilderness, abbastanza surclassata dal problema-Antropocene, è ancora una questione narratologica primaria? Perché la traduzione di uno spazio geografico in spazio testuale rimane un fatto centrale nell’agenda di chi scrive all’epoca del collasso? Alla periferia della mappa, della palude di Grendel, ci sono autori che, proprio perché lontani dalle dinamiche locali, permettono di estrarre paradigmi operativi per la nuova scrittura. Abbiamo già parlato di James Kilgo ne Il libro di un’isola, e qui ci ritorniamo per capire meglio e più in profondità la maniera in cui un “autore-prima-dell’Antropocene” ci sta additando una pista di lavoro. E una via di uscita.
Per qualche tempo, nella casa a Athens, Georgia, di Jim Kilgo, in uno studio che dopo la sua morte è diventato un laboratorio autoptico del suo metodo di lavoro, c’era uno schedario di lamiera e nello schedario un cassetto etichettato “Ossabaw Archive”. Nel cassetto, oltre a due diari, depliant e foto, blocchi di appunti e mappe, c’erano una trentina di articoli scientifici, tre dei quali dedicati ai maiali dell’isola-riserva sulla costa della Georgia. Kilgo era intrigato dalla loro storia come da ogni altra cosa che riguardasse Ossabaw. Così raccolse più materiale possibile – archeologia botanica biologia geologia – perché aveva deciso di scrivere un libro in cui il vero protagonista fosse un luogo. Un luogo, ma anche i maiali. Perché i maiali inselvatichiti di Ossabaw erano il modo più efficace per restare con i piedi per terra. In una delle prime pagine del diario inedito, che dal 30 dicembre 1999 al 13 dicembre 2000 Kilgo dedica all’isola, si legge:
I maiali a Ossabaw sono la prova concreta della storia. Le case della piantagione sono scomparse ma i maiali restano. I maiali sono ciò che c’è qui al posto dei grandi predatori. I maiali sono un antidoto contro l’impulso romantico. I maiali ci ricordano quello abbiamo fatto al giardino dell’Eden. I maiali non sono stati creati da Dio ma dall’uomo. La wilderness addomesticata torna selvatica. I maiali sono ciò che i “sensi possono raggiungere e cogliere”, dunque un modo di fare esperienza del luogo. I maiali definiscono lo spazio indifferenziato, rendono lo spazio luogo.
In un testo postumo del 2004 – Place of the Black Drink Tree – Kilgo raccoglie una minima parte delle osservazioni annotate in svariati soggiorni a Ossabaw per elaborare un’evocazione narrativa che spazia dal 500 a.C. ai primi del Novecento. Nativi, Spagnoli, Inglesi. Capanne, missioni, piantagioni. Cacciatori, agricoltori, schiavisti. Per arrivare all’epoca in cui l’isola divenne un terreno di investimenti e nel 1926 fu venduta in blocco – quasi 11.000 ettari – a Henry Norton Torrey. Dal 1978 l’isola appartiene allo Stato della Georgia ed è amministrata dal Department of Natural Resources in accordo con la Ossabaw Island Foundation che Eleanor “Sandy” Torrey West ha fondato nel 1961. Poco prima dei giochi olimpici di Atlanta del 1996 alcuni autori furono chiamati a contribuire alla New Georgia Guide. Kilgo scrisse il capitolo sulla costa e, a partire da quel periodo, cominciò a visitare alcune delle isole-barriera, e dal 1998 anche Ossabaw. La Fondazione di Sandy aveva lo scopo di promuovere programmi scientifici, artistici e culturali destinati a valorizzare la natura dell’isola minimizzando l’impatto dell’uomo sull’ecosistema. Così ha ospitato negli anni nomi illustri come Annie Dillard, Aaron Copland, Margareth Atwood, Eugen Odum. E nel febbraio del 2000 dopo alcune puntate occasionali James Kilgo soggiornò un mese sull’isola sviluppando una lunga e articolata riflessione su come scrivere quello che lui chiamava l’ “Ossabaw Book”.
Il diario è un autentico tesoro di idee e paradigmi sulla Nature writing. Raramente i libri di Kilgo alludono alle sue molte letture e a quella che alcuni addetti ai lavori chiamano “metaletteratura”. Era come se l’iceberg preparatorio che stava sotto al testo finito venisse progressivamente dissolto, assorbito e metabolizzato dalla narrazione. Un po’ come un pasto fatto di molte portate che si trasforma in energia muscolare. Nei suoi blocchi di appunti, ad esempio, annotava citazioni che nella versione successiva del testo diventavano una semplice frase brillante, e nella versione seguente la frase brillante lasciava il posto a una singola immagine luminosa che catturava l’essenza della riflessione iniziale. Per questo, per entrare nella “macchina” della sua scrittura, i diari, tutti inediti, sono centrali. In essi non si ascolta solo il suono dei fatti nel loro accadere, ma anche la voce di Kilgo che ragiona dentro di sé sul mestiere di scrivere.
The Way to Rainy Mountain di N. Scott Momaday. Out of Your Car, Off Your Horse di Wendell Berry. Landscape di Gretel Ehrlich. Dreamings. The Art of Aboriginal Australia di Peter Sutton. Another Country di Christopher Camuto. Dopo aver raccolto citazioni che guideranno i suoi passi a Ossabaw, Kilgo si chiede cosa potrebbe “fare” con i paesaggi dell’isola. Studiare i maiali, l’archeologia e la storia, ad esempio. Ma è davvero utile per stabilire un contatto reale con il luogo? E, constatando che prima o poi dovrò morire, ho perso qualcosa di essenziale che un luogo selvaggio può offrire? E allora si interroga sul significato del luogo. Per Kilgo un luogo diventa “reale” – cioè sentito e amato – attraverso il terreno, la luce, il tempo atmosferico, la fauna. Ma ancora di più attraverso la storia. Una storia che non è cronologia di eventi ma quello sforzo di immaginazione che solo l’artista può fare per recuperare visioni e atmosfere altrimenti perdute. In Place of the Black Drink Tree Kilgo ricorda che da tipico bambino del Sud rurale era incappato più di una volta in una punta di freccia emersa tra i fili d’erba nel terreno sabbioso. Quell’artefatto di pietra tagliente – a volte solo un frammento – era capace di evocare in lui “con il potere della sua medicina” un mondo d’ombre di “Indiani”, come si diceva. E non qualcosa di confinato in un passato lontano ma qualcosa di simultaneo al suo mondo per quanto invisibile. Il piccolo Jim non sapeva nulla dei nomi e delle lingue di quei popoli ma loro erano là. Ecco il significato profondamente poetico e “animista” della storia secondo Kilgo. Un passaggio tra mondi lontani nel tempo attraverso un paesaggio che funziona da cerniera. Una risonanza profonda. Proprio come l’arte rupestre e il potere invisibile dei grandi animali africani di cui scrisse in Colors of Africa.
Nelle pagine del diario di Ossabaw Kilgo moltiplica le domande. Quale può essere il principio strutturale del libro? Cosa mi spinge a cercare un punto di accesso a Ossabaw? Starò abbastanza bene (aveva il cancro) per vivere questo mese restando nel presente? Sarò catturato dal calendario? Sarò libero e rilassato tanto da essere aperto all’attimo? Ma si augura il meglio: Questo mese a Ossabaw potrebbe essere un microcosmo della mia vita come è ora. Un modo per esperire la qualità del tempo (kairos) e non la quantità (kronos). Come immagino questo libro? Nei miei sogni un capolavoro di Nature writing lirico ed evocativo nelle descrizioni e riflessivo su mortalità e desiderio e carico di informazioni fattuali. Sarà la mia esperienza a Ossabaw a determinarne la struttura. E in quei giorni scriverà anche all’amico Barry Lopez, per confidarsi con lui, per avere consigli.
Poi, dopo queste premesse, il diario dell’isola vero e proprio. Dall’8 febbraio all’8 marzo 2000. Pagine piene di nuvole e freddo e camminate solitarie. Querce, pini, palme. Maiali, somari, armadilli. Luci mattutine. Albe cremisi. Vento. Un sentiero nei giorni in bilico intuitivo tra studio dei testi ed esplorazioni fisiche. E poi pioggia e paludi e lagune immobili che riflettono il volo degli uccelli. Una volta dovrà anche tornare a casa per fare l’iniezione di ormoni, ma mentre Athens è la realtà, Ossabaw è il reale. E allora benedice il suo ritorno sull’isola. E ancora pomeriggi di marea e luci perlate sull’acqua increspata dal vento del nord. Le impronte dei maiali nella sabbia umida come tagliate da stampini per i biscotti. Hamburger di tacchino per cena. Riassettare la cucina. Camminare. La camicia nell’armadio. Camminare. Camminare. Dall’Ossabaw Book all’Ossabaw Experience. Come se la preoccupazione di trovare una struttura al libro – magari pensando a Frank Burroughs o Barry Lopez – avesse finalmente lasciato spazio al presente e a lui, James Kilgo. Il diario continua dopo il soggiorno ma si interrompe il 19 aprile. Il 13 dicembre Kilgo lo riprende dopo molti mesi:
Da aprile la mia immaginazione ha vissuto nell’incanto dell’Africa e nell’impellenza di scrivere del safari. Ma questa mattina sono tornato con il pensiero a Ossabaw cercando di capire se sarei in grado di dare forma all’Ossabaw Book come una ricerca sui maiali mangalica. Potrebbe essere questa la struttura. E la metafora.
È l’ultima nota del diario. Il libro su Ossabaw non verrà mai scritto. E forse è un bene. Altrimenti Colors of Africa con la sua potenza e la sua carica visionaria non sarebbe mai esistito. Ma questo progetto incompiuto resta un laboratorio di riflessione. La fragilità e il dubbio dello scrittore e dell’uomo che si interroga sui propri limiti e le lancinanti descrizioni dell’isola hanno il fascino di un possibile che rimane inespresso. Come un disegno a matita. Come una partitura musicale erbivora che ti risuona dolcemente dentro e che poi trema e si spezza sotto il ruggito notturno dei leoni.
Come tradurre un’isola in scrittura? Seguendo il tempo qualitativo delle generazioni animali, dei fantasmi ancestrali? Cercando un’equivalenza tra passo e penna, tra presente e Tempo reversibile? E perché questa pratica in bilico tra fisico e mentale dovrebbe darci strumenti per resistere all’Apocalisse? Non è solo una magra deviazione consolatoria nella caduta degli ecosistemi, nell’estinzione dei paesaggi? No. Bisogna immaginarci tra qualche anno. Anche se il mondo come era sarà finito, la sua ossatura residua richiederà un’attitudine alla lettura dei luoghi che potrà aiutarci a reagire, a sopravvivere. Conoscere i paesaggi, continuare a interrogarci su geomorfologia, idrologia, botanica sarà un toolkit necessario. E a volte, se un nucleo di prosa saggistica è stato compulsato da un vero scrittore, troveremo in una pagina narrativa o di poesia un concentrato di conoscenza e di tempo, delle istruzioni per l’occhio e per il piede, da usare disperatamente nel nuovo mondo.