C’era una volta un narratore di storie future che non raccontava solo storie future ma che forniva istruzioni per l’uso, per orientarsi nel presente. Chi si aspettava da lui l’intrattenimento di accattivanti storie future non si metteva nelle condizioni per capirle e magari si lanciava in critiche che erano come un boomerang: affermazioni identitarie “contro” che, mentre vogliono distaccarsi dal conformismo, lo producono. Perché accade così: il crollo cognitivo non si manifesta solo come propensione ai bias, a un’arroganza culturale direttamente proporzionale alla sua regressione, non è solo analfabetismo funzionale e disfunzione educativa, ma aggredisce anche le persone più colte come un’incapacità strutturale a fare ponte tra le idee. Questo analfabetismo “culto” è un collezionismo di dati, nozioni, aneddoti, pettegolezzi culturali senza che la mente combinatoria ne sappia trarre novità. Di fronte a un oggetto complesso, in presenza della rappresentazione narrativa di un iperoggetto, la mente tende a chiudersi, ad arroccarsi in una posizione di resa aggressiva. Non si spiega altrimenti il reflusso di commenti sbrigativi e sprezzanti su Tenet di Christopher Nolan. Un film che tra i cliché più convenzionali (e sbugiardati) dello spy thriller alla James Bond (scena di azione al concerto, il supercattivo sullo yatch, gli inseguimenti automobilistici, le esplosioni spettacolari, le riprese “epiche” in esterni mozzafiato) dispone sul tavolo una serie di pedine concettuali ormai ineludibili: tempo, collasso, reazione, sopravvivenza. Parole-chiave che fanno di Tenet non solo il film più avanzato sull’Antropocene visto fin qui ma anche un test per misurare la temperatura del nostro shock cognitivo.
Per capirlo potremmo trattare il film come un testo in senso semiotico. Invece secondo me è più utile usarlo come reagente per fare un discorso più generale sull’epica e sulla temporalità che presuppone e produce. Partendo da una domanda molto diretta: come si può parlare di epica nell’immaginario contemporaneo senza invocare il Postmoderno e la teoria dei generi letterari? Se insomma l’epica è la «rappresentazione poetica di un’azione mediante narrazione, che colloca il nostro animo nello stato della contemplazione sensibile più viva e più generale» (E. Raimondi, Scienza e letteratura, Torino, Einaudi, 1978, p. 142), e cioè se l’epica è un racconto di cose memorabili, di gesti il cui sapore storico di fondo, reale o alterato, è un elemento rilevante della fruizione; se la dimensione eroica nell’epopea arcaica era ottenuta non per astrazione e separazione dalla realtà quotidiana ma per immaginazione drammatica; allora, ciò che oggi in letteratura sembra quasi impossibile da riprodurre, è proprio quell’aristocratica simplicitas e quell’eccellenza di cose consuete che sono il carattere immanente dell’epopea. Per questo si parla non a caso di eclissi dell’eroico e, non senza un certo gusto per l’ossimoro, di epopea “borghese”, un residuo che serpeggia ormai solo nell’onnivoro genere del romanzo e che ha smarrito il contesto etnologico in cui la macchina epica poteva espletare la sua funzione di coesione collettiva e di vera conferma identitaria. Ma torniamo alla definizione completa di Raimondi:
Al contrario dello scrittore lirico, se per lirico si intende ciò che si contrappone all’epico in quanto raffigurante solo l’istante, il poeta dell’epicità produce una disposizione emotiva che può prolungarsi per tutta l’esistenza attraverso una serie vastissima di eventi unificati in una sola grande azione. […] Volendo allora raccogliere in una formula conclusiva i dati dell’esplorazione analitica, la poesia epica si può definire come una rappresentazione poetica di un’azione mediante narrazione, che colloca il nostro animo nello stato della contemplazione sensibile più viva e più generale (Raimondi, Ivi, pp. 141, 142).
Mentre l’epica narra un’azione unitaria e stende gli eventi raccolti su una superficie ampia e articolata di tempo, la lirica si concentra in un punto, e fa dell’istante il proprio argomento fondamentale: anche nella descrizione del mondo esterno l’emotività di chi scrive sembra occupare il posto di maggior rilievo, laddove l’epica lascia tacere il più possibile il narratore e guarda ai sentimenti dei personaggi come a oggetti non dissimili da ogni altro elemento del paesaggio. Il romanzo, invece, è un racconto di avvenimenti la cui concatenazione è affidata a fattori diversi da quelli interni all’evento, e cioè si fonda su intrecci ascrivibili alla perizia narrativa dell’autore: per quanto il “tempo grande” possa scorrere con dilatamenti e contrazioni tutt’intorno al suo tessuto, impregnandolo anche di autentica storicità, lo sguardo si perde lungo innumerevoli piste, e la narrazione si sfrangia in rivoli accidentali, decorativi, istantanei, e in senso lato lirici. Nulla di più lontano dall’epica: tanto nella monade lirica quanto nella polifonia romanzesca si è perso quel sapore di “destino collettivo” in “ampi spazi” che è il valore più autentico dell’epopea delle origini.
Eppure, al di là degli scrupoli storici e antropologici, si continua a parlare di epica per autori del Novecento come Derek Walcott di Omeros (1990), Patrick Chamoiseau di Texaco (1992) o Cormac McCarty della Border Trilogy (1993-1998), per non parlare di veri e propri studi critici che si confrontano con il concetto di epica nella modernità. Per gli autori italiani si è invocato il registro epico parlando ad esempio de Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio e, più di recente, per la produzione di Carmine Abate o di Sergio Atzeni. Ma che cos’è veramente l’epica, e in che misura siamo in grado di rianimarla nella fiction contemporanea? L’abuso che si fa del termine, il fraintendimento banalizzante, la pressoché totale assenza dell’epopea arcaica (romanza, germanica, celtica, ugro-finnica, araba, persiana, turca, russa, scita, indiana, cinese, africana, amerindiana…) tra le letture dello scrittore italiano contemporaneo, chiedono di fare il punto. Non tanto perché l’epica sia una stampella all’immaginazione che difetta o perché la realtà contemporanea abbia bisogno di essere epicizzata, quanto perché lo sguardo epico è un mindset utile a smantellare il neoliberismo letterario e a dotare lettori e scrittori di strumenti adeguati per capire l’Antropocene. Epica come narratologia in atto, non come metadiscorso sui generi letterari. Ma a questo punto serve una deviazione:
Senza mito – l’abbiamo già ripetuto – non si dà poesia: mancherebbe l’immersione nel gorgo dell’indistinto, che della poesia ispirata è condizione indispensabile… in ciascuna cultura e in ciascun individuo il mito è di sua natura monocorde, ricorrente, ossessivo. Come negli atti culturali l’evidente monotonia non offende i credenti bensì i tiepidi, così nella poesia… Del resto, dire stile è dire cadenza, ritmo, ritorno ossessivo del gesto e della voce, della propria posizione entro la realtà… Raccontare è sentire nella diversità del reale una cadenza significativa, una cifra irrisolta del mistero, la seduzione di una verità sempre sul punto di rivelarsi e sempre sfuggente. La monotonia è un pegno di sincerità (C. Pavese, Raccontare è monotono, in “Cultura e Realtà”, 1950).
Pavese pensa a Vico, a un tempo non lineare che tende a ripetersi ad anello, che si organizza in un flusso vorticoso, come un liquido inquieto, come un gas, e che per questo può somigliare al Caos ma che in realtà ha piste intelligibili, per quanto ardue da seguire. Nessuna rappresentazione del tempo è più condiscendente verso l’umano di quella lineare: risponde con la banalità della freccia a senso unico al doppio bisogno di senso, appunto, e di destino organizzante. Ma, anche senza scomodare la fisica e le alternative narrative che può apparecchiare, è chiaro che le semplificazioni cognitive lineari entrano presto o tardi in conflitto con la nostra capacità di azione nel presente, specie nei momenti di crisi. Che cos’è una crisi se non un crollo della percezione? E in questo crollo cos’è che sta crollando se non l’idea di Tempo? Un pianeta destinato al multi-collasso è un pianeta sottratto al delirio di onnipotenza demiurgica, il che certamente è un bene, ma è anche un mondo in cui l’individuo non vede più il futuro, e di conseguenza anche le sue visioni del presente e del passato diventano più offuscate. Se davanti c’è il crollo, anche il presente è un crollo, anche il passato è la preparazione di un crollo, in che modo allora l’azione può avere un senso, una direzione, un destino? Su questo humus da crisi epocale della percezione si innesta Tenet di Nolan.
Come ho anticipato in premessa, la mia idea è che Tenet non sia una spettacolarizzazione dell’Antropocene ma un test cognitivo per misurare la nostra disposizione a cambiare mindset. In questo senso è a tutti gli effetti un’opera di anticipazione, non nel senso della fiction tecnologica, dell’ingegneria scientista, ma di un altro tipo di ingegneria, quella dell’inner space, della coscienza, dell’immaginario. Il concetto di tutta l’operazione di Nolan è ostico ma elementare: il presente non va visto come una conseguenza del passato ma come un attacco da parte del futuro. Anti-intuitivo, certo, ma è l’unica possibilità per lasciare aperta una possibilità: se il presente è una conseguenza del passato e il futuro è ipotecato, allora non c’è più niente da fare; se invece il presente è un terreno invaso da un futuro catastrofico, allora resta un piccolo margine di azione per contrastarlo. In termini concreti, se immaginiamo il nostro presente come attaccato da potenze che devono ancora manifestarsi pienamente, per ora ancora invisibili e mimetizzate ma che stanno comunque arrivando (climate change, recessione economica, nuove pandemie, inquinamento nucleare, sovrappopolazione, esodi di popoli, et c.) allora possiamo prepararci all’impatto frontale, possiamo provare a parlare al futuro per cambiarlo.
Che cos’è Tenet? Per chi non si aspetta solo intrattenimento, per chi non si ferma al miele sulla coppa di farmaco, è il tentativo di generare uno shift cognitivo, è la traduzione narrativa, profetizzante, autoavverante, di una possibile svolta narratologica della civiltà occidentale. Il plot è questo: c’è gente nel futuro che crede follemente di poter modificare il passato senza generare conseguenze catastrofiche, ma la catastrofe appena intuita è accelerata e resa ormai certa da un Vilain che, dovendo morire di cancro al pancreas, decide di portare con sé nell’abisso il mondo intero: dopo di me il Diluvio. In contatto con “quelli del futuro”, decide di portare nel suo presente un algoritmo in grado di far collassare il Tempo, ma per fortuna gli si oppone una squad di agenti speciali che sfidano i paradossi dei viaggi temporali e che operano una specie di funambolica cronoingegneria per sventare la fine. Tutto qui. Però Nolan affida all’architettura diegetica frammenti di messaggio che lo spettatore non deve ricomporre, ma deve lasciare agire sottopelle, inconsciamente, come un farmaco persuasivo. E il messaggio dice alcune cose cruciali: 1) l’equilibrio/conflitto tra ignoranza e conoscenza dei fatti conta; 2) il tempo non può più essere lasciato scorrere ma deve essere architettato in ogni dettaglio; 3) la conoscenza è “suddivisa” quindi è sempre meno intelligibile, ci vuole una visone d’insieme per non perdersi o impazzire; 4) questa visone si ottiene solo con l’abitudine al paradosso; 5) il paradosso interiore è la chiave per agire nel presente.
Ecco la prospettiva epica. Per parafrasare Raimondi, “una disposizione emotiva [una visione] che può prolungarsi per tutta l’esistenza attraverso una serie vastissima di eventi unificati in una sola grande azione [temporale]”. Cambiare la visione del tempo, entrare nella “monotonia” ciclica, è l’unica via di uscita rispetto alla condanna lineare. L’unico modo per rapportarsi insomma con l’iperoggetto-Antropocene è la dimensione epico-narrativa, è entrare nella macchina-racconto-tempo, e Christopher Nolan ci sta dicendo una cosa folle e necessaria, che davvero possiamo metterci in dialogo con il futuro. Non voleva fare un film, insomma, vuole cambiare la testa delle persone, e forse anche per questo ha insistito per fare uscire Tenet nelle sale adesso, in piena pandemia… Poi sì, le scene finali di guerra contro il futuro di due truppe d’assalto, la rossa e la blu, in un’azione a tenaglia temporale in enormi paesaggi deserti siberiani che ricordano le fotografie del progetto Polygon di Julian Charrière, sono davvero “epiche”, “corali”, “mitiche”, ma l’epica, la coralità e il mito del tempo che Nolan ha tentato di inoculare nel nostro presente ha più a che fare con i dettagli, uno in particolare: un frammento di roccia, che sembra una stele babilonese al British Museum, dal quale si staccano proiettili sparati nel passato per tornare nella pistola del protagonista. Metafora iconica di quello che ci tocca fare adesso per sopravvivere: invertire la freccia del tempo, recuperare l’impossibile.
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