Come si usa un saggio?

Le liste dei must-read prescritte dalle scuole di scrittura italiane si assomigliano terribilmente tra loro. Non tanto perché i classici sono classici (e in fondo sono sempre quelli) o perché l’idea locale di romanzo non va molto più in là del Settecento euro-americano. Occasionalmente, certo, come riflesso delle personali idiosincrasie del “maestro”, si può trovare qualche scintilla originalissima, ma la vera, strabiliante somiglianza è dovuta alla quasi totale assenza di eclettismo multidisciplinare. Sappiamo che da secoli il canone-Italia è molto geloso della propria ignoranza scientifica, con una storia letteraria fatta da letterati di professione (e raramente da chimici, ingegneri, biologi) e segnata da un’incomunicabilità orgogliosa tra i due orizzonti del sapere. Se dunque in queste liste non stupisce l’assenza del Mahabharata, della Storia di Genji, de Le mille e una notte, del Cunto de li cunti, per non parlare del Beowulf, dell’Orlando furioso o de I Lusiadi, si sente invece la mancanza di una piccola nota a margine che raccomandi al neofita di leggersi anche un po’ di Claude Lévi-Strauss, un centinaio di pagine di Bertrand Russel sui principi della matematica, oppure un libro divulgativo di Donald Johanson, colui che ha scoperto Lucy, l’australopiteco, o Lascaux di Bataille, e magari qualcosa di neuroscienze, di geologia, di botanica, un Cavalli-Sforza, un Feyerabend, un Gombrich. La sensazione è che per scrivere un romanzo si debbano leggere solo romanzi, quando sappiamo che proprio gli autori nelle liste in questione erano molto spesso dei voluttuosi onnivori culturali. Il problema, ovviamente, non è che queste corvée alla Fight Club, stilate per scoraggiare/incoraggiare le reclute, sono il riflesso di una fragilità culturale mitomane, un vuoto originario compensato in modo bulimico per distanziare il maestro dall’allievo. Il problema è che tradurre un saggio in scrittura, in invenzione, in racconto è oggettivamente un affare complicato.

La ragione è semplice. La lettura di un saggio richiede una speciale forma mentis che ha poco a che vedere con il semplice desiderio di informazione o con il mero furto di idee. Ovviamente non parliamo qui del saggio divulgativo, come può essere un bel libro di Jonathan Safran Foer o di Merlin Shaldrake, lavori che sono già la traduzione in qualcos’altro di un sapere più o meno specialistico. Con saggio si intende qui tutto quello che si son letti Foer e Shaldrake prima di apparecchiare il loro prodotto, l’a monte fatto di dati, modelli, teorie, analisi, interpretazioni, ricerche che in qualche modo va raccontato, semplificato, attualizzato e sottoposto a restyling. Per capire come funziona un saggio nella testa di uno scrittore bisognerebbe osservare il preciso momento in cui questo lost in translation, il fraintendere alla Bloom, diventa qualcosa di nuovo e di diverso. A volte ci sono libri che lo raccontano, come ad esempio la relazione creativa tra Bruce Chatwin e Bob Brain ne Le vie dei canti (1987). Chatwin usa qui l’espediente narrativo delle molekine, i taccuini di appunti che, nel suo caso, sono il missing link tra “scienza” e “letteratura”, tra studio e scrittura, tra ricerca e invenzione. Nella fattispecie, Chatwin elabora la sua personale archeologia delle tenebre, incarnata dal predatore alfa, il Dinofelis, usando le ricerche di C.K. Brain raccolte in un libro straordinario, The Hunter or the Hunted (1981), un minuzioso saggio scientifico di tafonomia paleontologica, di etologia predatoria e di ricostruzione preistorica. Tra grafici, fotografie, disegni e digressioni aneddotiche, Chatwin trova un nucleo potente, una doppia intuizione “poliziesca” ispirata da un lato dalla somiglianza del lavoro di Brain con la medicina legale, dall’altro dall’avventurosa ricerca del paleontologo sudafricano che si mette sulle tracce di un misterioso “serial killer” preistorico. Chatwin vede il potenziale narrativo dell’avventura scientifica, e la riscrive in un indimenticabile abbozzo di giallo metafisico-evoluzionistico.

Si sente spesso ripetere, un po’ come un mantra giustificatorio, che i corsi di scrittura non possono insegnare a scrivere ma possono aiutare a leggere meglio e, va detto onestamente, potrebbe essere una sfida ambiziosa che vale il prezzo di una spesa esosa. Forse. Ma come si legge un saggio? Come può leggerlo uno scrittore, aspirante o in lotta per restare a galla, traendone non solo un importante beneficio culturale ma anche qualche input creativo? Facciamo un esempio semplice: Costantinopoli di Jonathan Harris (2007). Il libro è concepito per il grande pubblico ma non rinuncia a ben 80 pagine di apparati (note, mappe, bibliografia, indice dei nomi) a fronte di 200 pagine di saggio. Essendo concepito come una specie di visita virtuale alla Città per eccellenza del mondo tardoantico e medievale, il libro si è posto già ab origine il problema di parlare a molti, ma questi molti, nonostante la prosa piacevole e visibile, non troveranno una guida Lonely Planet. Come Chatwin ha colto in Brain una macchina narrativa potenziale, Costantinopoli di Harris va letto ai raggi X. Certamente il narratore che voglia far camminare il suo personaggio nella città del XII secolo troverà nel primo capitolo delle informazioni circostanziate sul setting, ad esempio che cosa si poteva vedere sulla Mese, la via centrale, con a sinistra le arcate dell’acquedotto di Valente (se entravi dalla porta di Charisios), sulla destra San Polieucto, e nelle vicinanze la colonna di granito di Marciano, il foro di Teodosio, e così via. Nel terzo capitolo ci sono tutte le istruzioni necessarie per far difendere la Città da un assedio, ad esempio nel porto, con i sifoni fatti a teste di drago per sparare sui nemici il fuoco greco. Relitti infuocati, pestilenze e corruzione, vestigia di epoche lontane incorporate nel tessuto urbano, cunicoli segreti, sette e ortodossia, e il dubbio sempre più forte che George R.R. Martin si sia ispirato a Costantinopoli per inventare Approdo del Re… I capitoli Palazzi e potere e Chiese e monasteri infittiscono la topografia urbana di dettagli e i vari aneddoti storici narrati nel libro regalano “scene” inedite, il pane quotidiano di cui si sfama il narratore. Scene e scenari, dunque. Ma qual è la visio, la ragione espositivo-intellettuale che davvero può aiutare lo scrittore? Probabilmente una pista praticabile è quella di provare a usare la tecnica illustrativa adottata da Harris: ancorare il dato storico a una mappa cognitiva in forma urbana, usare la topografia cittadina come matrice di una topologia storica, tradurre lo spazio concreto in spazio testuale, raccontare la storia come un colombarium, cioè tanti loculi narrativo-visuali visitati a salto di rana… Ed è solo l’inizio.

Proviamo allora con un esempio più complesso: Le sentier de la guerre. Visages de la violence préhistorique (2001) di Jean Guilaine e Jean Zammit. Innanzi tutto chiediamoci: perché infliggersi questa lettura? a cosa può mai servire? Mettiamo di voler dare profondità a una scena di violenza, mettiamo che la scena sia centrale nel libro e che vogliamo che resti memorabile, mettiamo di non voler cedere a un descrittivismo splatter o a uno psicologismo soporifero, come possiamo procedere? Se non ci interessa soltanto la famiglia disfunzionale o la malattia della mamma ma abbiamo bisogno di narrare un picco tragico, una finestra sull’ineffabile della morte violenta, qualcosa di archetipico e perturbante, ovviamente possiamo usare Lennie di Uomini e topi o una delle innumerevoli scene di Cormac McCarthy, come nel campionario di tenebre che è Meridiano di sangue. Non senso, sguardo nell’abisso, realismo autoptico, allucinazione… Rispetto alla media narrativa italiana potrebbe già bastare. Ma prendiamo Le sentier de la guerre, ad esempio a p. 78 dove, un po’ come faceva Bob Brain, si ricostruisce una scena del crimine, questa volta del Neolitico. Gigounet, Francia, vittime trafitte da frecce e trascinate morte o semimorte al suolo. Ma anche tracce di overkill, di morte multipla, cioè di uccisioni individuali ripetute sul corpo già morto. Da un lato il gesto umano/animale del massacro, dell’infierire, dell’orgia di sangue, dall’altro la sensazione di una violenza che trascende la storia, che aleggia come fantasma della specie, che spalanca l’interrogativo non sul movente ma sul “chi siamo davvero? chi potremmo essere e in realtà non lo sappiamo?”. La paleoantropologia non dà risposte in questo senso ma offre un metodo descrittivo che è anche un metodo narrativo: la visio desumibile da questo saggio è l’orrore del dettaglio, l’indizio minimo che è metonimia di un buco nero antropologico, la scienza come analisi delle tracce, come falso raffreddamento/distanziamento del buio e, nella distanza, per magia simpatica, il modo più raccapricciante di abbracciarle, il lato dell’assassino.

Ancora più difficile: Le vocabulaire Indo-européen di Xavier Delamarre. A cosa può servire un lessico etimologico tematico indoeuropeo a parte aiutare un world-builder a inventare toponomastica e onomastica per il suo grandioso romanzo fantasy? Sarebbe già fantastico, perché permetterebbe di evitare l’effetto cheesy e imbarazzante di tutti quei nomi di luogo e di persona inventati ex nihilo et mentula canis da scrittori che non sanno nulla di linguistica storica, di coerenza fonetica, di plausibilità nel costruire nessi tra linguaggio e mondo. Nonostante l’autonomia del significante, la semantica ci racconta storie leggermente più complesse, e la storia delle parole è un universo dalle potenzialità narrative illimitate. Immaginiamo una normale scena domestica. Un uomo siede al tavolo, sul tavolo c’è un coltello. Magari il coltello è lì solo per tagliare la bistecca, oppure è lì per deformare la realtà domestica e il senso di radicamento del personaggio nel reale. Come aprire il ventaglio semantico di un oggetto? Come farlo abitare da una moltitudine narrativa? *kestrom, ‘coltello’ in Indoeuropeo ha dato il latino castro, da cui ‘castrare’, ma esisteva anche *skolma che produsse l’antico islandese skolm ‘spada, rebbio’. Così sul tavolo di cucina abbiamo adesso luoghi e funzioni, azioni e tempi, geografie e narrazioni potenziali che prima non c’erano. Oppure prendiamo una delle Guide Geologiche Regionali della Società Geologica Italiana, ad esempio quella dell’Appennino Ligure-Emiliano. Alle pp. 340-341 troviamo una descrizione delle evaporiti triassiche della media e alta Val Secchia, luoghi che se mai sono entrati nella letteratura lo hanno fatto dalla porticina verde e rotonda del folklore regionale o dall’uscio scrostato e ironico del realismo magico emiliano. Il paesello, la vita di provincia, l’umanità allo specchio. Ma che cosa sono le evaporiti triassiche? Sono gessi e calcari originati da lagune costiere soggette a intensa evaporazione tra 250 e 200 milioni di anni fa. Così, assieme alle caprette e agli amori incorrisposti, potremmo avere la Tetide calda, i dinosauri che strisciano nel bitume, le palme, e una cosmografia parallela e relativizzante.

Dialettica del mostro di Sylvain Piron sulle cartografie apofeniche di Opicino de Canistris; Copisti e filologi di Leighton D. Reynolds e Nigel G. Wilson sul metalibro antico che continua ad abitare ogni libro moderno; Mille piani di Gilles Deleuze e Félix Guattari sulla deterritorializzazione dell’adesso-qui; The Feeling of What Happens: Body and Emotion in the Making of Consciousness di Antonio Damasio sugli oggetti come periferiche del corpo; Frammenti di antropologia anarchica di David Graeber per ritrovare elasticità mentale; Il pensiero selvaggio di Claude Lévi-Strauss sulla mente catalogica come scienza ambientale; The Tender Carnivore and the Sacred Game di Paul Shepard sulla profondità biologico-evolutiva dell’alienazione contemporanea. Ognuno di questi saggi, che sono un esempio idiosincratico di chi scrive, non sono solo archivi di dati ma occasioni narratologiche. Le visiones che contengono sono già istruzioni per l’uso per chi voglia aumentare la complessità prospettica del gioco romanzesco, come passare dagli scacchi ordinari alla scacchiera 3D. Leggere romanzi serve ovviamente a calarsi in una “voce”, a estrapolare trucchi narrativi, a stimolare scene e scenari, ad arricchire il repertorio di fabula e intreccio, a capire come si struttura una weltanschauung. Leggere saggi serve a fare esattamente le stesse identiche cose, magari in modo meno “classico”, e lasciando il problema della “voce” a una più difficile ricerca del sé.

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